Curieloves you, collezione Alta Moda FW 18-19 tra sogno e realtà

Magia, grazia, eleganza, poesia, sogno, incanto, creatività, capacità, maestria, qualità, bellezza: ecco cosa amo, ecco cosa cerco e perseguo nella Moda (quella con la M maiuscola), ecco cosa mi aspetto da lei.
In questa spasmodica ricerca, mai mi delude la Maison Curiel, la mia oasi di pace e bellezza e sogno in una moda (in questo caso in minuscolo…) che, troppo spesso, bada esclusivamente al soldo e non più al sogno.
Lo scorso 18 settembre, giusto all’inizio della più recente Milano Fashion Week, nella quiete e nella bellezza del giardino di Casa degli Atellani, splendida dimora quattrocentesca che è stata una cornice assolutamente perfetta e assolutamente in sintonia (qui e qui in due miei scatti proprio di quel giorno), la Maison Curiel mi ha permesso ancora una volta di volare: come per magia, grazie alla collezione Alta Moda autunno / inverno 2018-19, mi sono sentita sollevare e trasportare fino a una sfavillante Vienna con Gustav Klimt, Emilie Louise Flöge, Adele Bloch-Bauer…

Dal più profondo del cuore, sento dunque di dover dire un grande grazie, poiché Curiel mi aiuta a ricordare perché tanto amo la Moda.
Io vivo di questo e il resto… le polemiche, il clamore, certi show faraonici ed esagerati che talvolta nascondono una mancanza di idee stilistiche… ecco, tutto questo contorno resta per me solo pura chiacchiera (senza offesa per nessuno, per carità, visto che è detto da una che del chiacchierare ha fatto il proprio mestiere).
Mi sembra invece il minimo condividere bellezza e maestria con voi che state leggendo ora e che mi fate il dono di leggere le mie chiacchiere.
E allora vi lascio al racconto e alle immagini della collezione, sperando di poter estendere il piccolo miracolo che ho vissuto io stessa quel giorno, sollevandovi e trasportandovi fino a quella Vienna da sogno. Leggi tutto

Sarcasmo e cliché nelle foto di Juno Calypso in mostra a Milano

Juno Calypso, Milk, 2016

Lo ammetto: saltellare con leggerezza, allegria, curiosità tra eventi molto diversi tra loro e godermi l’opportunità di vivere le esperienze più disparate (senza graduatorie, senza discriminazioni, senza pregiudizi, senza esclusioni) è cosa che mi diverte molto.

Ultimamente, Milano mi sta offrendo detta possibilità con particolare ed estrema generosità: nelle ultime settimane, ho potuto dividermi tra l’inaugurazione della mostra dedicata alla maison di moda Etro e l’inaugurazione della mostra dedicata invece al grande pittore Magritte, ho potuto divertirmi come una bambina all’anteprima di una mostra dedicata ai dinosauri così come ho potuto imparare moltissimo in occasione della tavola rotonda tenuta da Alba Cappellieri a proposito di uno dei suoi bellissimi libri sul gioiello.

Come dicevo, per me non v’è graduatoria tra questi eventi molto diversi tra loro: tutto ciò che è nuovo, tutto ciò che è occasione di crescita e di apprendimento, tutto ciò che mi consente di colmare le mie personali lacune è occasione ghiotta e imperdibile.

La più recente opportunità si è verificata giusto un paio di sere fa con un vernissage dedicato a Juno Calypso, artista londinese in mostra per la prima volta in Italia presso lo Studio Giangaleazzo Visconti di Milano.

Oggetto della mostra sono le fotografie di Juno e desidero essere chiara fin da subito: Juno non fa foto graziose di paesaggi o animali o modelle vestite all’ultima moda, no, lei – con una notevole dose di sarcasmo e ironia che risultano talvolta stranianti – affronta i pregiudizi e i cliché legati alla donna contemporanea, in ambientazioni alquanto surreali tra cui un motel americano e una villa-bunker a Las Vegas.

A un primo sguardo magari un po’ distratto, i suoi possono apparirci come autoritratti fotografici dall’estetica caramellosa: in realtà, si rivelano invece come scatti dall’approccio fortemente critico, sospesi tra noia, narcisismo, black humor e capaci di condurre a una riflessione dai contorni molto seri.

La fotografa, nata e cresciuta a Londra, è un nome cult per gli amanti di un’estetica pop pink che richiama gli Anni Sessanta e Ottanta: è nota a livello internazionale soprattutto per le tre serie intitolate Joyce, The Honeymoon e What to do with a Million Years. Leggi tutto

E come Emanuela o egocentrica? Viaggio dalle iniziali al monogramma

Ricordo perfettamente un episodio della mia adolescenza e lo ricordo perfettamente come se risalisse a ieri e non, invece, a molti anni fa.
Eravamo all’inizio dell’anno scolastico e, forse per rompere un po’ il ghiaccio dei primi giorni di studio dopo le lunghe vacanze estive, la professoressa di letteratura ci diede da fare un tema nel quale dovevamo parlare di noi stessi.
Ne ero intrigata e ricordo come iniziai: «amo parlare di me stessa con i miei difetti e i miei pregi».
Ricordo perfettamente il foglio protocollo a righe diviso in due colonne, quella di sinistra dove scrivevamo noi e quella di destra che serviva per le correzioni della professoressa; ricordo il mio orgoglio nel portare a casa quel foglio da far vedere alla mia mamma, come si faceva allora; ricordo l’orgoglio per il bel voto vergato in rosso; ricordo le parole di mia mamma che mi raggelarono.
«È davvero un bel tema, ma iniziare con quelle parole è decisamente un po’ egocentrico.»
Ci rimasi malissimo.
Perché tenevo al suo parere e mi dispiaceva che potesse pensare che io fossi egocentrica.
E perché mi sentivo incompresa.
Non volevo certo essere egocentrica e non avevo minimamente pensato che quelle parole («amo parlare di me stessa») potessero dare (giustamente…) una simile idea di me: ero in buona fede e, abituata da sempre a tenere un diario, volevo semplicemente dire che ero felice di poter condividere me stessa e i miei pensieri. Ma mi spiegai malissimo, me ne rendo conto, e mi vergognai anche pensando a come doveva aver sorriso la mia professoressa (che tanto stimavo) leggendo quelle mie parole che, sul foglio, risultavano tanto differenti dalle mie reali intenzioni…

Quel giorno, imparai un’importante lezione, anzi, due.
La prima è quanto sia grave una cattiva comunicazione e quanto sia importante scegliere con estrema cura le parole che usiamo. La verità, infatti, non è che non ero stata compresa: ero io che non avevo saputo spiegarmi.
La seconda lezione è che dovevo fare del mio meglio per tenere a bada quel certo ego che (quasi) tutti noi abbiamo, perché tutto desideravo tranne che diventare una di quelle persone che si sentono al centro del mondo, poiché in me, da sempre, esiste una volontà più forte: aprirmi al mondo e condividere.

Ed eccomi qui, parecchi anni dopo, a ricordare e a raccontare un piccolo episodio che è in realtà è diventato un monito importante del quale credo di aver fatto tesoro.
Nel frattempo, la comunicazione è diventata il mio mestiere e non ho mai smesso di controllare costantemente che il mio ego (indubbiamente forte ma credo e spero non a livello patologico…) non prenda mai il sopravvento su alcuna delle cose di cui mi occupo, nel privato e nel lavoro.
Prendete questo blog: l’ho aperto proprio per condividere tutto ciò che amo con gli altri e certo non per un mio personale tornaconto bensì per l’amore sincero verso persone e progetti che stimo. Ho voluto appositamente che il centro e la protagonista di tutto ciò non fossi io, ma persone, cose, marchi, progetti che sono sì visti con i miei occhi ma che restano (e devono restare) i protagonisti. Per questo, molto raramente, i post si incentrano su di me: me lo concedo in occasione del mio compleanno e poche altre volte (come in un ciclo che ho scherzosamente denominato Manie vs mio archivio).

Non solo, come altre persone che desiderano tenere a bada i propri difetti, anch’io adotto piccoli trucchi in tal senso: una strategia molto comune è quella di lasciare che il difetto in questione si espanda in una piccola mania tutto sommato innocente.

Volete sapere la mia? La personalizzazione di oggetti con il mio nome o iniziali o monogramma o, ultimamente, con Agw, ovvero l’acronimo del nome del blog.

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Pillole di MFW per la prossima bella stagione: SS 19 Angelo Marani

Frammento della collezione SS 19 Angelo Marani in un mio scatto realizzato durante la recente MFW

Siamo (già!) a metà ottobre e l’estate sembra (quasi…) un ricordo lontano così come sta per diventarlo anche settembre, il mese del back to school e della Milano Fashion Week con l’edizione che ha presentato le proposte moda per la prossima primavera / estate 2019.
Come ho scritto in due post recenti, uno a proposito dello stilista Alberto Zambelli e uno a proposito del brand Lamberto Losani, so che (giustamente!) siamo tutti ormai proiettati verso l’autunno e l’inverno, ma mi fa piacere condividere con voi alcune anticipazioni, le collezioni che hanno attirato la mia attenzione in modo positivo in occasione della mia partecipazione a presentazioni e sfilate.

Continuo dunque il piccolo viaggio intrapreso presentandovi la collezione SS 19 Angelo Marani.

Credo che la mia stima verso la famiglia Marani sia cosa nota, tanto che non conto più post e articoli a loro dedicati, qui nel blog così come attraverso i miei canali social, da Facebook a Instagram, nonché attraverso le testate con le quali ho collaborato o collaboro tuttora.
Per anni ho seguito Angelo Marani – fondatore dell’omonimo brand, stilista innamorato della bellezza e della femminilità, orgoglioso portabandiera del Made in Italy – e anche la figlia Giulia che, ormai da tempo, ha intrapreso la stessa carriera, seguendo le orme paterne con umiltà, passione e capacità.
Quando, in gennaio 2017, Angelo Marani è prematuramente scomparso, oltre a provare un grande dolore (la stima nei suoi confronti è sempre stata professionale ma anche personale), mi sono interrogata circa la direzione che avrebbe preso il marchio senza di lui: la risposta me l’ha data proprio Giulia attraverso la collezione Angelo Marani FW 2018 – 19, una risposta forte, chiara, concreta e che profuma di heritage.

Giulia Marani ha infatti (meritatamente) raccolto l’eredità del padre Angelo e sta rendendo onore al lavoro da lui fatto in un modo che a me piace molto: sta mettendo mano al suo archivio storico e lo fa con rispetto, amore, curiosità e freschezza, rivisitando grandi classici e rendendoli contemporanei senza snaturarli, esattamente com’è tornata a fare anche per la collezione SS 19 Angelo Marani.

Ecco dunque che Giulia procede a passo sicuro tra stampe animalier, fiori e petali, lavorazioni pregiate e applicazioni minuziose di micro e macro borchie, tocchi di macramè (proponendolo in un motivo a stelle), bordure di piume di struzzo, colori acquarellati insieme ai toni della terra e a toni esplosivi come un’intensa sfumatura di turchese che ricorda il mare.
Giulia gioca piacevolmente con forme e tagli, con linee femminili, armoniose e danzanti, con sovrapposizioni inedite di materiali ma anche di stampe che uniscono classic e contemporary fashion.
Qualche esempio?
Il lupetto dal taglio sportivo in materiale tecnico viene messo sotto l’abito (come nell’abbinamento che ho fotografato qui); i foulard vengono invece portati sotto cappelli, alla pescatora o tipo baseball, per un effetto sofisticato ed estremamente attuale in un’alternanza festosa di fantasie e colori – come potete vedere nella foto che apre questo post.

Il risultato dell’operazione condotta da Giulia è estremamente femminile (proprio come piaceva ad Angelo Marani) ed è anche dinamico, versatile, pratico, vivace, vitale, grintoso e pop.
Viene così a stabilirsi un ponte tra heritage e contemporaneità, tra capacità manifatturiera (che ha sempre fortemente caratterizzato il marchio) e tecnologia; ed è così che – a mio avviso – si garantisce continuità ma anche innovazione, scrivendo presente e futuro di un nome che tanto ha fatto per consolidare e diffondere il buon nome del Made in Italy.

Manu

 

A seguire, alcuni outfit della collezione SS 19 Angelo Marani (ph. di Paolo Turina, courtesy ufficio stampa).
Per visualizzare la gallery da pc, cliccate sulla prima foto
e poi scorrete con le frecce laterali.

Per seguire il brand Angelo Marani, qui trovate il sito, qui la pagina Facebook e qui l’account Instagram.

Alba Cappellieri e i gioielli dall’Art Nouveau al 3D printing

La passione per la lettura mi ha sempre caratterizzata, fin da piccina, e credo sia perché mi ha costantemente permesso di saziare la mia immensa curiosità, peraltro temporaneamente e mai definitivamente. Fino al libro successivo, insomma.

Scherzando, mia mamma racconta di non sapere se da bambina le costassi più in libri oppure in cibo, altra grande passione per la sottoscritta: ricordo quando, preoccupata per il ritmo con il quale doveva acquistare nuovi volumi, mi iscrisse prima alla biblioteca di zona e poi alla splendida Sormani, sede principale del sistema bibliotecario milanese. Ricordo altrettanto bene l’impressione che mi faceva quel luogo così storico e per me un po’ magico.

So anche per certo che è stata la lettura a peggiorare la mia miopia già congenita: sempre da bambina, infatti, avevo la pessima abitudine di leggere in condizioni di luce spesso sfavorevoli, ovunque mi trovassi e qualsiasi fosse il pezzo di carta stampato.
Più di una volta, mamma mi beccò a leggere perfino i fogli di vecchi quotidiani che lei stendeva sul tappeto della cucina per proteggere il pavimento le rare volte in cui friggeva…

Naturalmente, è stata la lettura a influenzare ciò che faccio ora e a consolidare l’amore per la comunicazione.
Leggere non è solo una passione ma è anche parte integrante e fondamentale del mio lavoro: spesso, oggi, devo optare per gli strumenti digitali (web, supporti elettronici, formati pdf e quant’altro) ma, ovviamente, la carta è rimasta la mia preferita. Aprire un quotidiano appena acquistato piuttosto che un libro intonso e tuffarvi il naso resta per me uno tra i piaceri più grandi che esistano.
Ho smesso, invece (per fortuna!), di leggere i quotidiani stesi in terra…

Devo dire che, tra lavoro e svago, raramente mi capita di fare letture che risultino in contemporanea piacevoli, interessanti e istruttive quanto riescono a esserlo i libri di Alba Cappellieri, illustre professore ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano.

Seguo ormai da tempo e con attenzione il suo lavoro (qui il mio post più recente) perché Alba – mi permetto di chiamarla per nome – soddisfa in aggiunta un altro mio appetito infinito: quello per il mondo del gioiello e delle sue molteplici sfaccettature e declinazioni e sono dunque felice di annunciare l’uscita della sua nuova fatica letteraria intitolata Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing.

Il volume propone uno straordinario repertorio di gioielli, orafi e grandi maison internazionali che, a partire dagli inizi del Novecento a oggi, hanno interpretato le evoluzioni del gusto in forme preziose.
Propone dunque un viaggio senza confini, dalla Francia all’Asia, dagli Stati Uniti all’Italia, dall’Inghilterra alla Germania, dall’Olanda ai paesi del Nord e si va dai capolavori dell’Art Nouveau di Lalique, Vever e Fouquet all’eleganza dell’Art Déco con le meraviglie di Cartier, Boucheron, Tiffany, Mario Buccellati e Fabergé; dalle invenzioni di Van Cleef & Arpels (maison della quale ho parlato spesso come qui e qui nei post più recenti) e di Bulgari negli Anni Cinquanta alle avanguardie olandesi e al gioiello d’artista degli Anni Sessanta per arrivare, infine, alle proposte dei designer e degli stilisti della contemporaneità.
Esattamente come io stessa sono passata dall’analogico al digitale (dal libro in carta al web), parallelamente il nuovo millennio è rappresentato nel volume dall’introduzione della manifattura digitale come la stampa 3D e le tecnologie indossabili (anche in questo caso, discorsi che mi sono cari e che sto pian piano affrontando anch’io, nel mio piccolo, ovviamente, come feci qui nel 2016): c’è spazio anche per i nuovi processi creativi, produttivi, distributivi e comunicativi (determinati dal modello open source, ovvero sorgente aperta, che si riferisce a tutte quelle tecnologie di cui i creatori favoriscono il libero studio, lo sviluppo, l’utilizzo), processi che stanno definendo gli scenari del gioiello del futuro.

Si tratta dunque di un approfondito saggio storico-critico che introduce un’eccezionale selezione di immagini (che è costata molto lavoro, come racconta la stessa Cappellieri), pensata come una galleria ideale dei capolavori dell’arte orafa dal XX secolo a oggi: le immagini sono accompagnate da un ricco glossario sulle tecniche e i materiali, tradizionali e innovativi.

Non pensate, però, a un volume noioso: ho usato il termine saggio perché è la definizione corretta ma – come dicevo in principio – Alba Cappellieri ha il dono (dono prezioso quanto raro) di rendere piacevolissimo e fruibilissimo anche un volume particolarmente ricco dal punto di vista dei contenuti storici e critici. E il libro risulta infatti bello sia da leggere sia da sfogliare.

Ho avuto il piacere di assistere alla (gremitissima!) conferenza che, giusto un paio di giorni fa, si è tenuta presso la Pinacoteca di Brera a Milano: in tale occasione, Alba Cappellieri ha presentato il libro dialogando anche con Gabriele Aprea (presidente di Chantecler e del Club degli Orafi ) e Vincenzo Castaldo (direttore creativo di Pomellato), in un tavolo moderato da Federica Frosini, direttore del magazine VO+.

Ho molto amato come il tavolo di discussione è stato condotto partendo dalla domanda di apertura di Alba Cappellieri: qual è la definizione di gioiello?
Le risposta non è univoca, naturalmente, e le definizioni possono essere diverse in base a chi risponde: per esempio, la definizione è sicuramente diversa tra uomo e donna, ma anche tra orafo e artista (interessante, in tal caso, come per quest’ultimo il corpo diventi perfino una superficie espositiva).
Ognuno di noi attribuisce al gioiello un significato diverso, un’accezione diversa, una declinazione diversa.
Per diversità di età, esigenze, professione, attitudine, interesse e per mille altri motivi ancora.

Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing si propone come punto di incontro tra i diversi punti di vista, i diversi significati e i diversi mondi, senza pretesa di graduatorie o classifiche perché – come ben dice Alba Cappellieri – «è ora di ragionare per assonanza e non per divisioni».

Questo desiderio di unire e non dividere è per me un motivo più che sufficiente per acquistare il volume, un motivo che si aggiunge alla piacevolezza e alla preziosità evidenti dal primo istante.
Senza dimenticare che, com’è stato ricordato, il gioiello è anche gioco, fin dalla sua etimologia: il termine gioiello deriva infatti dal latino iocalis da iocus ovvero «scherzo, gioco».

Non potrei essere più d’accordo sulla dimensione anche ludica e gioiosa del gioiello e allora permettetemi di concludere con una battuta scherzosa: spero di non perdere qualche altra diottria tra le pagine scintillanti (e per me particolarmente golose) del tuo meraviglioso volume, cara Alba.

Manu

 

Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing
2018, edizione italiana, inglese e francese
24 x 28 cm, 264 pagine, cartonato, Euro 60 (qui sul sito dell’editore Skira)
ISBN 978-88-572-3736-7 I, -3737-4 e ISBN 978-2-37074-091-5 F

Alba Cappellieri è professore ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano dove dirige i corsi di laurea triennale e magistrale in Design della Moda.
È direttore del corso di alto perfezionamento in Design del Gioiello, del Master internazionale in Accessory Design
e del Master in Fashion Direction – Brand & Product Management presso il Milano Fashion Institute.
Dal 2013 al 2016 ha insegnato Design for Innovation alla Stanford University.
È membro del Comitato Scientifico dell’École Van Cleef & Arpels a Parigi e della Fondazione Cologni a Milano.
Nel 2017 è stata nominata ambassador del Design Italiano per l’Italian Design Day a Osaka.
Dal 2014 è direttore del Museo del Gioiello in Basilica Palladiana a Vicenza.

Immagine in alto: la copertina del libro Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing e pendente Sylvia pubblicato a pag. 73 (1900, Vever su disegno di Henri Vever, oro, smalti, agata, rubini, diamanti. Parigi, Musée des Arts Décoratifs, credito fotografico: © ADAGP, Paris 2018: Les Arts décoratifs, Paris. Photo Jean Tholance, All right reserved).

Inside Magritte a Milano: «ceci n’est pas une exposition»

«Essere surrealista significa bandire dalla mente il già visto e ricercare il non visto.»

Credo di non aver mai letto parole più adatte per definire chi è un surrealista e ad aver pronunciato tali parole è una persona autorevole, sicuramente tra le più competenti in materia: parlo di René Magritte, ovvero uno dei massimi pittori del XX secolo nonché uno tra i maggiori esponenti del surrealismo.

Prendo in prestito le sue parole per iniziare il racconto di un’avventura che mi fa particolarmente piacere condividere con tutti coloro che leggono, perché questa esperienza riguarda proprio lo straordinario (e credo amatissimo) artista e perché tali parole sono perfette per motivare il tipo stesso di esperienza.

L’esperienza è un viaggio multimediale tra reale e immaginario, tra evocazione di un mondo onirico e racconto della vita concreta dell’artista: si tratta di Inside Magritte, il nuovo e inedito percorso espositivo multimediale dedicato al grande maestro René Magritte (1898 –1967), promosso dal Comune di Milano, ideato e firmato da Crossmedia Group (maggior produttore italiano di Digital Exhibition) insieme a 24 ORE Cultura che co-producono la tappa milanese per la regia di The Fake Factory.

A partire da oggi, 9 ottobre, e fino al 10 febbraio 2019, Inside Magritte anima la Cattedrale della Fabbrica del Vapore a Milano con immagini, suoni, musiche, evocazioni e suggestioni che ricostruiscono l’universo pittorico dell’artista belga: per la prima volta in assoluto, una mostra monografica digitale e multisensoriale a lui dedicata viene realizzata con il supporto e la consulenza scientifica della Succession Magritte di Bruxelles.

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Pillole di MFW per la prossima bella stagione, SS 19 Lamberto Losani

Lamberto Losani menswear & womenswear SS 19 in un mio scatto realizzato durante la recente MFW

E così, anche settembre è ormai finito portando via con sé la Milano Fashion Week o Milano Moda Donna con l’edizione che ha presentato le proposte degli stilisti per la prossima primavera / estate 2019.
Come ho scritto in un recente post a proposito di Alberto Zambelli, so che – giustamente! – siamo ormai tutti proiettati verso l’autunno e l’inverno, ma mi fa piacere condividere con voi alcune anticipazioni, le collezioni di alcuni stilisti che ho incontrato durante le numerose presentazioni e che hanno attirato la mia attenzione in modo positivo (ebbene sì, confesso di aver visto anche proposte che non mi sono piaciute per niente ma ribadisco ancora una volta quanto io preferisca aprire bocca oppure pigiare i tasti del pc esclusivamente per dare spazio alla positività).

Continuo dunque questo mio piccolo viaggio tirando in ballo una persona che ho avuto la fortuna di incontrare diversi anni fa: era il 2012 quando ho incontrato Saverio Palatella per la prima volta e se parlo di fortuna è perché Saverio è un vero professionista della moda e dei modi in cui essa si fa linguaggio, è un grande anzi grandissimo esperto di maglieria ed è uno sperimentatore (qui trovate un mio articolo su una delle sue sperimentazioni pubblicato da Scenario Magazine, testata con la quale allora collaboravo, qui nel blog trovate invece un post su una sua collaborazione con la cantante Rokia Traoré – giusto per citare un paio di progetti che raccontano l’immensa versatilità di Palatella).

Tra le tante collaborazioni e i tanti progetti che costellano la carriera di Saverio, oggi desidero raccontarvi del suo lavoro in seno a Lamberto Losani, un nome che evoca a sua volta suprema qualità e innovazione: la maison leader nell’ambito del cashmere Made in Italy e che può contare su una storia lunga oltre 75 anni (78, per l’esattezza) si proietta verso il futuro grazie a una nuova sede, un assetto manageriale rinnovato e il debutto del menswear che va ad affiancare il womenswear a partire, appunto, dalla primavera – estate 2019.

Fondato nel 1940 e guidato oggi da Lamberto Losani, persona innamorata di arte e musica e votata all’armonia e alla qualità del bel vestire italiano in maglia pregiata, il brand ha infatti aperto uno showroom a Milano in via Spiga 2, nel cuore del quadrilatero dello shopping di lusso milanese e accanto ai protagonisti del Made in Italy: la foto in alto è stata da me scattata proprio lì lo scorso 22 settembre, quando ho avuto la possibilità di visionare la collezione e di accarezzarla, è proprio il caso di dirlo.

Direttamente dall’Umbria, regione divenuta ormai per antonomasia il distretto del cashmere italiano d’eccellenza, arrivano le nuove collezioni Made in Lamberto Losani, ricercate e dotate di naturale raffinatezza ed eleganza, disegnate dal direttore creativo Saverio Palatella, colui che con talento e capacità ha fatto della maglieria la forza della sua creatività e della sua personale e costante ricerca.
Sotto la sua egida, nasce la costola maschile di Lamberto Losani, brand già a lungo affermato nel womenswear, e si dipana in un percorso creativo fatto di forme confortevoli e destrutturate.

Partendo dal guardaroba di Ernest Hemingway, autore di romanzi indimenticabili e uomo che adorava i pullover di gusto british e le maglie a trecce fisherman, il guardaroba intelligente per l’uomo di Lamberto Losani guarda in direzione dell’arte grafica del giapponese Ikko Tanaka (1930 – 2002) che, per inciso, ha collaborato anche con il grande (grandissimo) Issey Miyake.
Filtrato da un certo gusto nipponico, stemperato da vivaci accenti contemporanei, ispirato ai criteri più evoluti dell’estetica no gender o gender fluid (termine che preferisco poiché più poetico e suggestivo) e del filone athleisure (la tendenza che estrapola lo sportswear dall’ambito di origine per portarlo nella vita di ogni giorno), prende così forma un guardaroba in cashmere ricco nelle lavorazioni e nei colori che, oltre ai classici neutri e al deep blu, prevede anche lampi di rosso: trionfano gli intarsi e le geometrie con qualche riferimento all’esuberante natura hawaiiana.

Forte di uno spirito nomade e cosmopolita, la collezione si rivolge non solo all’esigente clientela italiana, ma anche ai mercati esteri come il Giappone, la Corea, la Germania, l’America.
Le esclusive creazioni di Lamberto Losani sono esposte nelle vetrine italiane e internazionali più ambite e rinomate e lo smart knitwear della maison è diffuso attraverso più di 400 punti vendita selezionati in tutto il mondo (tra i quali
figurano nomi del calibro di L’Eclaireur a Parigi, Maxfield a Los Angeles, IF Boutique a New York, Cashmere & Silk a Mosca, Shinsegae a Seoul) nonché mantenendo solide partnership con i più prestigiosi department store come Harrods, Galeries Lafayette, Isetan e molti altri.

Cosa aggiungere? Mi riempie sempre di grande orgoglio avere conferma di quanto i nostri prodotti più pregiati e prestigiosi siano apprezzati in tutto il mondo.

In principio, ho scritto di aver visionato e accarezzato la collezione e non l’ho scritto a caso: i capi di Palatella per Lamberto Losani vanno toccati e le lavorazioni vanno viste da vicino perché c’è da restare a bocca aperta, ve l’assicuro.
È uno dei frangenti in cui sento l’impotenza delle parole davanti all’esperienza diretta e reale poiché, in questo caso, esse non bastano a descrivere ciò che va toccato e sentito sulla pelle.

Manu

 

A seguire, alcuni outfit della collezione womenswear SS 19 Lamberto Losani (ph. courtesy ufficio stampa).
Per visualizzare la gallery da pc, cliccate sulla prima foto
e poi scorrete con le frecce laterali.

Per seguire il brand Lamberto Losani, qui trovate il sito, qui la pagina Facebook e qui l’account Instagram.

Rosso pestifero, tabù e rossetto in mostra a Milano

Esattamente un mese fa, ho dedicato un post a una manifestazione che ha attirato la mia attenzione.

A Milano, questa settimana e precisamente dal 4 al 7 ottobre, prende il via la prima edizione di Peste!: promosso dalla Fondazione Il Lazzaretto, il Festival desidera proporre e suggerire una contaminazione tra arti visive, arti performative e pratiche psico-fisiche.

Peste! sceglie la contaminazione attraverso quattro giorni di incontri, workshop, concerti, proiezioni, installazioni e performance: lo scopo è, in questo caso, esplorare i temi legati al femminile fino ad arrivare a scandagliare le complessità del presente.

Come avevo raccontato nel post precedente, per tutta la durata del Festival, Il Lazzaretto presenta anche la mostra Rosso pestifero, tabù e rossetto a cura di Maria Elena Colombo e della Fondazione stessa.

Ed è proprio su questa mostra che desidero concentrarmi stavolta, perché il rossetto non vuole esserne il protagonista assoluto, bensì è un pretesto, un filtro, una lente attraverso la quale guardare noi stessi e la nostra voglia di mostrarci o, anche, di nasconderci.
Rosso Pestifero è una mostra dedicata ai tabù che il rossetto veicola, allestita in due diverse aree all’interno degli spazi de Il Lazzaretto. Leggi tutto

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