In ricordo di Sarah Hegazi perché… gli altri siamo noi

C’è una notizia che mi tormenta da giorni.
È quella del suicidio della trentenne egiziana Sarah Hegazi (molte testate italiane scrivono Sarah Hijazi), attivista LGBTQ+.

Sarah viene arrestata nel 2017 nel suo Paese per aver alzato la bandiera arcobaleno al concerto della band libanese Mashrou’ Leila: agli amici racconta poi degli abusi, delle violenze e delle torture fisiche e psicologiche subite durante i due mesi in carcere.
Quando la rilasciano, Sarah viene pubblicamente additata per il suo gesto e per il suo orientamento sessuale: decide di lasciare l’Egitto e chiede protezione internazionale in Canada.
Le viene accordata e così lei parte, alla ricerca di un nuovo inizio: dal Canada continua a chiedere la liberazione degli attivisti nelle carceri egiziane.

Ma il dolore e il ricordo degli abusi subiti non passano: pochi giorni fa, Sarah Hegazi si è suicidata lasciando una lettera.

«To my siblings, I have tried to find salvation and I failed, forgive me.
To my friends, the journey was cruel and I am too weak to resist, forgive me.
To the world, you were cruel to a great extent, but I forgive.»

L’orrore generato dalla violenza ha vinto: il ricordo incancellabile ha infine sopraffatto Sarah.

Ed è successo mentre siamo nel Pride Month che si tiene a giugno di ogni anno dal 1970.
(Se non sapete perché: nel giugno 1969, la comunità LGBTQ+ fu protagonista di una serie di rivolte scoppiate in seguito a un raid della polizia di New York allo Stonewall Inn, club gay nel Greenwich Village. Un anno dopo la rivolta di Stonewall, l’attivista Brenda Howard ebbe l’idea degli eventi che oggi costituiscono il Pride Month.)

È successo mentre le umane ingiustizie continuano a mietere vittime.

È successo mentre ancora non vi sono né verità né chiarezza né giustizia per il nostro connazionale Giulio Regeni, torturato – e ucciso – a sua volta in Egitto nel 2016.
È successo mentre Patrick George Zaki, attivista egiziano e studente dell’Università di Bologna, resta in stato di detenzione preventiva anche lui in Egitto, per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.

È successo quando non è trascorso nemmeno un mese (era il 25 maggio) dalla morte di George P. Floyd, l’uomo afroamericano che dopo quasi 9 minuti di agonia, nonostante con un filo di voce continuasse a ripetere «I can’t breathe», è stato soffocato dal ginocchio di Derek Chauvin, poliziotto bianco di Minneapolis in Minnesota, negli Stati Uniti.
La sua morte violenta e assurda ha scatenato proteste in tutti gli Stati Uniti e, a catena, in tantissime città nel mondo e in Europa, riportando al centro dell’attenzione il movimento attivista Black Lives Matter nato nel 2013.

Sembrerebbe, dunque, che intolleranza nonché odio razziale e religioso stiano soffocando il mondo.
Ci massacriamo gli uni con gli altri.
Inclusività… accettazione… rispetto… quando diventeranno parole più note, comuni e diffuse di intolleranza, razzismo, omofobia?

Intanto, da quando ho letto del suicidio di Sarah Hegazi, non riesco a darmi pace.

Anzi, sto proprio male, fisicamente, e provo una nausea costante.

Sto male perché – ancora una volta – tutti i diritti umani e civili di una persona sono stati orrendamente e barbaramente violati. È stato violato il suo cuore, la sua anima, la sua mente, il suo corpo.
Sto male in qualità di persona che, negli anni, si è esposta per l’uguaglianza affinché ogni orientamento sessuale e ogni colore di pelle vengano – finalmente – rispettati. Non mi permetto di definirmi un’attivista come lo era Sarah e come lo sono i membri di BLM, non ne sono degna, ma sicuramente sono una convinta sostenitrice dei diritti umani e civili.
Sto male in qualità di persona che ha chiesto e continua a chiedere giustizia per Giulio Regeni e libertà per Patrick George Zaki.
Sto male in qualità di cittadina del mondo che, tantissimi anni fa, fece un viaggio in Egitto amandolo. E non mi riferisco solo alla sua gloriosa storia antica, ma anche alla realtà che trovai e che cercai di comprendere nel nome del reciproco rispetto che sono convinta dovrebbe caratterizzare i rapporti tra le diverse culture.

E sto male perché ho una consapevolezza: Sarah Hegazi o Giulio Regeni o Patrick George Zaki… potrei essere io. O qualcuno di voi che sta leggendo.

Sì, avete letto bene. Potrei essere io o potrebbe essere uno di voi, cari amici.
Perché Giulio Regeni era italiano – esattamente come me, come noi.
Perché anch’io, come Sarah e come Patrick George, credo nei diritti umani e civili e, come loro, mi esprimo attraverso i social network. E lo faccio anche attraverso questo blog nel quale tratto molti temi e anche questi.
La differenza tra me e loro è che io lo faccio – incluso il post che sto scrivendo – da un Paese come l’Italia dove esiste l’Articolo 3 della Costituzione.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»

L’Articolo 3 mi e ci protegge, ma a me questo pensiero non basta perché – se mi spostassi in un altro Paese e se facessi le stesse identiche cose che faccio qui – potrei essere Sarah Hegazi o Patrick George e potrei esserlo pur essendo italiana – e mi riferisco a Giulio. Potrei essere imprigionata, torturata, uccisa.

Non che in Italia sia tutto rose e fiori, per carità: questioni aperte quanto a disparità di ogni genere e grado ne abbiamo anche qui da noi (nel 2016 ho scritto di un atroce caso di omicidio di genere), ma nessuno viene imprigionato e torturato (o ucciso) per il proprio orientamento sessuale o perché alza una bandiera arcobaleno.

(A proposito: pare che Patrick George stesse indagando sulla repressione che, negli ultimi anni, si sta verificando in Egitto, repressione basata proprio sugli orientamenti sessuali e documentata in uno studio per l’ONG con cui collaborava. L’indagine potrebbe essere uno degli elementi alla base del suo arresto.)

L’Articolo 3 ci protegge, è vero, è questa è una differenza fondamentale, tuttavia le idee alla base del razzismo e della disuguaglianza non hanno, purtroppo, confini.
Sono come un cancro e come un cancro dilagano e non bastano i confini nazionali a bloccare l’odio verso tutto ciò che è considerato diverso, dall’orientamento sessuale fino al colore della pelle.

Per questo motivo, oggi come ho già fatto in passato (per esempio qui), affermo con forza che chi ama i diritti dovrebbe desiderarli per tutti.
Per questo motivo affermo che le diseguaglianze di qualsiasi tipo e il razzismo sono problemi che riguardano tutti.
Per questo motivo affermo che una società che decida di affrontare e risolvere questioni come la negazione dei diritti umani e civili è una società migliore per tutti, anche per chi crede o si illude di non poter mai essere vittima di diseguaglianza.
Per questo affermo che ‘gli altri’ non esistono; ‘gli altri’ siamo noi.
Prima o poi diventiamo tutti ‘gli altri’, per qualcuno o in qualche luogo o in qualche momento.

Per questo non smetterò mai di espormi perché non esistano più storie come quella di Sarah Hegazi, non smetterò mai di chiedere giustizia e verità per Giulio Regeni, non smetterò mai di chiedere libertà per Patrick George Zaki, non smetterò mai di appoggiare movimenti come Black Lives Matter affinché nessuno debba più morire come George Floyd.

Sono e sarò sempre contro TUTTE le forme di disuguaglianza, contro TUTTE le forme di segregazione e violenza, contro TUTTE le manifestazioni di razzismo. Sono e sarò sempre per la tutela di TUTTE le vite di ogni colore e di ogni orientamento.
Lo faccio nel mio piccolo, ma l’errore sarebbe pensare che proprio perché ‘piccola’ io non abbia una parte e una responsabilità: ce l’ho io e l’abbiamo tutti.

Ciascuno di noi può fare la propria parte. Ciascuno di noi, con i propri gesti, può contribuire a cambiare il corso della storia. A migliorarlo, a renderlo più equo per TUTTI.
Pensiamoci la prossima volta che voltiamo la testa dall’altra parte, la prossima volta che pensiamo «in fondo non mi riguarda». Non è così.

Eppure, nonostante tutto questo dolore, non voglio e non posso rinunciare a un piccolo seme di speranza.
Desidero infatti condividere un’altra notizia di questi giorni: lunedì 15 giugno, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che nessuna persona può essere licenziata sulla base del proprio orientamento sessuale.
La Corte aveva iniziato a occuparsi della questione circa un anno fa e la decisione era molto attesa dagli attivisti per i diritti LGBTQ+ perché, finora, solo in 22 stati più Washington DC erano state adottate leggi che proteggono un lavoratore dall’essere licenziato perché gay o transgender.
Nello specifico, la Corte ha deciso che il Titolo Settimo della legge del 1964 sui diritti civili – che vieta le discriminazioni su base del «genere sessuale» – si debba estendere anche all’orientamento sessuale dei lavoratori.
Questo è un seme di speranza, lo ripeto, eppure allo stesso tempo fa capire quanta strada ci sia ancora da percorrere OVUNQUE per poter parlare di parità di diritti e come nessuno si possa sentire al riparo o non in causa, non importa che si viva negli Stati Uniti, in Egitto o in Europa.

Questo piccolo seme arriva purtroppo tardi per Sarah Hegazi e per la sua vita.

Sara che, nell’ultima foto pubblicata via Instagram, appare distesa su un prato sotto il cielo blu: sembra sorridere, ma la didascalia trafigge il cuore.
«The sky is sweeter than the earth and I need the sky not the earth.»

Non mi importa, Sarah, quale fosse la tua religione o il tuo orientamento sessuale: non importa se fossero uguali o diversi dai miei.
So solo che il mio cuore, oggi, sanguina come se avessi perso una sorella perché per me c’è una sola razza – quella umana – e ci sono uomini di buona volontà e, purtroppo, uomini di cattiva volontà.

Spero, Sarah, che tu possa trovare la pace che ti è stata negata in Terra a causa dei peggiori sentimenti della nostra razza.

Manu ♥

 

 

 

 

 

A glittering woman è anche su Facebook | Twitter | Instagram

 

Sharing is caring: se vi va, qui sotto trovate alcuni pulsanti di condivisione

 

 

 

 

 

Spread the love

Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Lascia un commento

Nome*

email* (not published)

website

error: Sii glittering... non copiare :-)