Playhat e il bello di fare squadra con persone di buona volontà

Amo sfatare i luoghi comuni.

Per esempio, mi diverte smontare quello che vuole che le donne non sappiano fare squadra tra loro: sono donna e il gioco di squadra mi piace e mi piace in generale, senza discriminazioni di genere. Il presupposto irrinunciabile è farlo con persone di buona volontà perché, che si tratti di donne o uomini, preferisco tenere lontano chi risucchia energia e chi non crede nella reciprocità. Dico no, insomma, a rapporti a senso unico nei quali una persona dà (soltanto) e l’altra prende (soltanto).

Un altro luogo comune che mi piace sfatare, sempre parlando di gioco di squadra, è quello che vuole che il mondo blogger sia frammentato e incapace di fare fronte comune. Non è così e, per quanto mi riguarda, lo dimostro anche con una sezione di questo blog, quella in cui indico i colleghi da tenere d’occhio, donne, in moltissimi casi.

Vedete, il presente post smonta entrambi questi luoghi comuni in un colpo solo, ovvero nasce grazie a un gioco di squadra tra donne e per giunta blogger. Devo dire infatti grazie a Ida Galati per avermi fatto conoscere la storia che sto per raccontarvi: tra le tante cose che fa, Ida ha anche un ottimo blog che si chiama Le stanze della Moda e si è adoperata per far conoscere Playhat tramite una community di donne che per lavoro o divertimento vivono quotidianamente la vita dei social network.

Playhat: è questo il nome del brand protagonista della storia, un’azienda fondata nel 2008 da Matteo Marziali.

Classe 1978, marchigiano, Matteo ha vissuto la sua adolescenza in giro per il mondo, respirando creatività, innovazione e cultura cosmopolita: dopo tanti viaggi ed esperienze importanti (per esempio in Spagna dove ha vissuto per diverso tempo), è rientrato in Italia e dal 2003 vive e lavora in provincia di Macerata.

La creatività, la ricerca stilistica e la curiosità verso il mondo hanno fatto sì che Matteo sia diventato uno stilista brioso e fantasioso, attento a un concetto (moda ricercata e anche allegra, vivace e colorata) che si è concretizzato in Playhat.

Il brand è nato proprio nel cuore del distretto calzaturiero marchigiano e, grazie a questa origine, è diventato un prodotto di manifattura artigiana e locale, 100% italiano, di altissima qualità eppure allo stesso tempo internazionale, anticonformista e versatile, rivolto alle esigenze di chi ama l’estetica ma non vuole dimenticare il benessere dei propri piedi.

Ecco, finora vi ho raccontato la parte bella, la storia di un giovane uomo che ha ottime idee nonché la forza e il coraggio per realizzarle, perché l’avventura di Matteo è partita semplicemente e senza grandi supporti, in un garage, il luogo in cui ha tagliato le prime 200 paia di scarpe semplicemente con un cutter. E grazie al suo coraggio, oggi Playhat propone una collezione di sneaker fuori dal coro, con un carattere deciso e distintivo nel suo genere grazie alla cura del dettaglio, alla scelta di materiali eccellenti e alla continua ricerca di modelli originali.

Per contro, però, in questa bella storia ci sono i fantasmi dell’ormai onnipresente crisi nonché della burocrazia (purtroppo quella italiana, bisogna dirlo): Matteo non si è arreso e insieme al suo team ha studiato nuovi modi per distribuire i suoi prodotti senza passare attraverso i canali tradizionali (rappresentanti e negozi) che, oggi, rappresentano un fattore di rischio talvolta troppo alto soprattutto per piccoli brand come Playhat che sta invece lavorando a nuove formule (tra queste un proprio sito di e-commerce).

Per fare tutto ciò, considerata la difficoltà di ottenere fondi proprio a causa della già citata burocrazia, Playhat ha deciso di lanciare una campagna su KickStarter, piattaforma di crowdfunding (ovvero finanziamento collettivo) grazie alla quale vengono presentati progetti creativi provenienti da tutte le parti del mondo.

L’obiettivo è quello di raccogliere 37.000 euro, una cifra che può essere considerata alta o bassa: alta se è quella che separa dai propri sogni e si ha difficoltà a reperirla; bassa se magari si prova a raccoglierla insieme. Se non bassa, diciamo che non è proibitiva e che è assolutamente ragionevole: tra l’altro, come in tutti progetti di crowdfunding, chi partecipa riceve anche qualcosa in cambio in base all’entità del contributo dato (pare che io non sia l’unica a credere nella reciprocità e nella sua efficacia).

A questo punto, lascio la parola a Matteo, lascio che sia lui a spiegare le ragioni della sua scelta.

Ora posso rivelarvi una cosa che non ho detto in principio, quando parlavo di luoghi comuni: amo sfatare soprattutto quelli che mi imprigionano.

Già, perché nessuno o quasi è libero dai luoghi comuni: ultimamente, risento parecchio del clima pesante che si respira in molti ambiti e talvolta cado anch’io in un luogo comune arrivando a pensare che l’ottimismo non esista più. E, nello specifico, che non esista più il mio che, invece, mi ha sempre caratterizzata.

Poi, accade che io viva un paio di episodi che, apparentemente, non sono connessi tra loro.

Leggo una definizione, mangiamore, e solo dopo capisco che chi l’ha creata l’aveva concepita in negativo, riferendosi a quelle persone che si rivelano buchi neri in grado di risucchiare amore: io avevo invece pensato che fosse un modo poetico per indicare chi si nutre di amore, chi di esso vive. Leggo poi una storiella in cui una bambina ha due mele e, prima di darne una alla mamma, dà un morso a entrambe: la mamma sospetta che la piccola abbia assaggiato le mele per scegliere quella migliore da tenere per sé e io mi stupisco rendendomi conto di aver invece pensato come la bambina, ovvero di assaggiare per offrire la mela più buona.

Ripeto, sembrano due episodi non connessi, eppure mi sono trovata a riguardarli qualche giorno dopo insieme, sotto la stessa luce, paragonandoli: sono manifestazioni diverse di una stessa cosa perché, in entrambi i casi, ho visto la metà piena del bicchiere, sono stata istintivamente attratta dall’ipotesi positiva.

Sono un’inguaribile ottimista, non sono cambiata, non ancora; la mia testa, i miei pensieri e il mio cuore continuano ad andare istintivamente verso il polo positivo. Forse, a volte sono un po’ stanca o provata, i miei sensi sono talvolta appannati, ma poi, alla fine, torno quella di sempre.

Allora non è vero che l’ottimismo non esiste più. Allora non è vero che le difficoltà quotidiane stanno uccidendo la mia positività. Allora è un luogo comune pensare che la vita riesca sempre e comunque a piegare ottimisti e sognatori.

Sì, è un luogo comune perché, quando Ida ha condiviso la storia di Playhat, non ho impiegato più di qualche secondo prima di decidere di voler dare una mano, perché sono e sarò sempre dalla parte della positività, dell’ottimismo, del sorriso, della voglia di farcela in barba alle difficoltà. Sono e sarò sempre dalla parte delle persone di buona volontà.

Ho scelto di dare uno spazio a Playhat perché credo davvero in ciò di cui parlavo in principio, credo nel fare squadra con persone di buona volontà: Matteo Marziali lo è, senza dubbio.

E voi, voi credete nella forza della squadra e dell’unione?

Manu

 

 

Se volete partecipare al progetto Playhat:

Qui trovate la campagna su Kickstarter, spiegata molto bene e in ogni dettaglio

Qui trovate il sito Playhat e qui la pagina Facebook

Qui trovate il post di Ida Galati sul suo blog

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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