40anni di tesori MF1 svelati da un archivio ora digitale, una mostra, un libro

Lo racconto sempre agli studenti dei miei corsi in Accademia del Lusso: siamo così abituati a pensare alla moda italiana come a un elemento costitutivo dell’identità del nostro Paese da dimenticarci spesso che essa è, al contrario, una realtà abbastanza recente.

La verità è che, fino all’Ottocento, a dettare legge in ambito moda è stata la Francia e gli stessi creatori di casa nostra hanno guardato i cugini d’Oltralpe cercando esempi e ispirazione.
Pensate alla celebrità della quale ha goduto Maria Antonietta d’Asburgo Lorena, moglie di Luigi XVI e nota semplicemente come Maria Antonietta (1755-1793): tutto ciò che la sovrana fece creare o scelse e poi indossò divenne moda non solo in Francia, bensì presso tutte le corti europee dell’epoca.
E pensate che, proprio per quanto riguarda il nostro Paese, ho scoperto che la stessa parola «moda» apparve per la prima volta solo nell’edizione del 1691 del dizionario italiano: la definizione era quella che fotografa tuttora la caratteristica fondamentale della moda, ovvero «ciò che riguarda le abitudini mutevoli».
Già, perché la moda indica comportamenti collettivi con criteri mutevoli: non solo, anche se usiamo spesso questo termine in relazione al modo di abbigliarci, dobbiamo ricordare che in realtà la moda non è solo nei vestiti.
Così come è utile ricordare che la moda nasce solo in parte dalla nostra necessità di sopravvivere, coprendoci prima con pelli e poi con materiali e tessuti lavorati per essere indossati; gli abiti assunsero infatti ben presto anche precise funzioni sociali, atte per esempio a distinguere le varie classi e le mansioni – e questo occorrerebbe ricordarlo soprattutto a chi continua a considerare la moda come cosa futile e sciocca.

Ma torniamo alla moda italiana.

Il 17 marzo 1861, venne proclamato il Regno d’Italia e il nostro Paese assunse finalmente un’unica identità politica (almeno sulla carta…): sin dall’Unità, venne avanzata da più parti la necessità di creare una moda nazionale e nacque un progetto politico e culturale per definire e diffondere la moda italiana come forma di patriottismo.
Tali tentativi, però, non sortirono grande successo e fu necessario attendere quasi un altro secolo.

Poco tempo fa, proprio qui nel blog, ho raccontato di una persona straordinaria che è stata tra coloro che hanno contribuito a far nascere la consapevolezza del Made in Italy: questa persona è Rosa Genoni (1867-1954), prima sarta professionista in Italia che si ispirò non più al modello francese – o non solo – bensì al Rinascimento italiano e a Botticelli.
Come ho raccontato in un post precedente, la Genoni venne premiata all’Esposizione di Milano del 1906 e, nel 1909, da incredibile pioniera quale è stata, pubblicò un libro intitolato «Per una moda italiana: modelli, saggi, schizzi di abbigliamento femminile, 1906-1909»
Anche il fascismo lavorò al concetto di moda italiana: nel 1935, venne costituito l’Ente Nazionale Moda, con sede a Torino, nell’ottica della cosiddetta autarchia portata avanti dal regime in ogni settore.

Eppure, nonostante tante iniziative di diverso carattere, gli storici della moda concordano su una data di nascita del Made in Italy, data che ci porta addirittura agli Anni Cinquanta del Novecento: ecco perché si considera la moda italiana come una realtà alquanto recente.
Il momento fondativo della moda italiana viene infatti identificato con il «First Italian High Fashion Show», ovvero la sfilata che Giovanni Battista Giorgini (1898-1971), imprenditore e discendente di una nobile famiglia lucchese, organizzò a Firenze il 12 febbraio 1951 presso Villa Torrigiani, la sua residenza privata, per presentare abiti e accessori italiani a compratori americani.
L’intraprendenza di Giorgini, la qualità dei prodotti (furono presentati, tra gli altri, nomi del calibro di Emilio Schuberth, le Sorelle Fontana, Jole Veneziani, Germana Marucelli, Emilio Pucci), la reputazione dei compratori, l’appoggio di alcuni giornalisti (come Irene Brin che, in qualità di italian editor per Harper’s Bazaar, pubblicizzò l’evento oltre oceano): tutti questi elementi decretarono il successo dell’evento.
Tale successo portò così a una seconda edizione nel luglio del 1951 nei saloni del Grand Hotel di Firenze: dal 1952, nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, si organizzarono due stagioni di sfilate all’anno, una a gennaio e l’altra a luglio.
Nel frattempo, anche quella grande macchina dei sogni che è il cinema offrì una mano alla nostra moda: negli Anni Cinquanta avvenne l’esplosione di Cinecittà con le produzioni americane che diffusero (in una visione non sempre obiettiva e spesso un po’ stereotipata, in verità…) il mito del Belpaese e del bel vivere all’italiana, moda inclusa, naturalmente.
La moda italiana guadagnò un’identità ben definita e raggiunse finalmente la definitiva notorietà e diffusione come concetto che, nel tempo, diventerà addirittura una sorta di marchio, un brand.

E qui introduco un secondo argomento fondamentale: la moda italiana, così come molti altri settori nostrani, si è fondata principalmente sul sistema dei distretti produttivi industriali.
I distretti industriali sono agglomerazioni di imprese, in genere di piccola e media dimensione, ubicate in un ambito territoriale circoscritto e storicamente determinato: ogni impresa è specializzata in una o più fasi di un processo produttivo e tutte insieme si integrano andando a costituire una rete complessa di interrelazioni di carattere non solo economico ma anche sociale.
Tali distretti rappresentano uno dei maggiori punti di forza del sistema produttivo italiano e sono caratterizzati dall’elevata specializzazione: sebbene il modello di sviluppo industriale basato sui distretti non sia un’esclusiva italiana, esso ha trovato in Italia le condizioni ideali per la sua affermazione e, oggi, la nostra legislazione riconosce e tutela circa 200 distretti industriali, distribuiti a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale.
I distretti, insomma, sono la base di buona parte del nostro sistema industriale e della nostra economia: sono stati fondamentali per la reputazione di eccellenza che la moda italiana si è guadagnata nel tempo, tant’è che perfino molte maison francesi si sono rivolte alle manifatture italiane per le lavorazioni più delicate e preziose.

Forse vi chiederete perché vi ho raccontato tutto ciò.
Perché ho voluto raccontarvi – in breve – parte del percorso che ha portato all’affermazione della moda italiana e del Made in Italy nonché fare menzione al sistema dei distretti industriali?
Perché il progetto di cui vi parlo oggi parte proprio da tutto ciò: dall’importanza della storia del Made in Italy, dalla tradizione e dalla necessità di salvaguardare e tramandare il suo valore (e lo stesso G.M. Conti, speaker della serata alla quale ho partecipato, ha ricordato G.B. Giorgini), dall’eccellenza della manifattura italiana rappresentata dai distretti produttivi, dalla volontà di guardare avanti per continuare a crescere e innovare.
E come si realizza tutto ciò?
Per esempio, digitalizzando gli archivi storici delle aziende italiane di moda, partendo da quelle manifatturiere che sono fondamentali poiché posseggono tutti i segreti e l’expertise che c’è dietro la moda; digitalizzarli significa rendere più facile l’accesso e, quindi, garantirne la continuità.

E allora desidero parlarvi di una splendida serata alla quale sono stata invitata lunedì 23 aprile, una serata con una doppia finalità: presentare il progetto di digitalizzazione dell’archivio di un’azienda storica che si chiama MF1 e inaugurare la mostra «Maglia, Punto. Quarant’anni di tesori nascosti dell’archivio MF1», aperta fino a domenica 6 maggio a Milano, a Villa Necchi Campiglio.

Perché la scelta di questa location per presentare il progetto e ospitare la mostra?
A mio avviso, è una scelta del tutto naturale, visto che è uno dei luoghi più belli di Milano, un luogo che si distingue per bellezza ed eleganza pure senza clamore o ostentazione: dimora storica datata 1932-35 costruita dal grande architetto Piero Portaluppi, Villa Necchi Campiglio è oggi una casa museo che ben rappresenta quell’eccellenza italiana di cui ho tanto parlato in principio.

La mostra «Maglia, Punto. Quarant’anni di tesori nascosti dell’archivio MF1» è stata curata dal professore Giovanni Maria Conti ed è il risultato di una ricerca che si chiama Digiknit (fusione di digital e knitwear, maglieria), finanziata da Regione Lombardia all’interno del bando Smart Fashion and Design, realizzata grazie alla collaborazione tra lo storico maglificio MF1, il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano e PowerApp, una “fabbrica digitale” che produce strategie e applicazioni personalizzate.

È un viaggio alla scoperta di 40 anni di storia della moda: in esposizione, vi è infatti una selezione dell’archivio storico di MF1 che conta circa 7500 abiti (7500!) i quali, attraverso un progetto di digitalizzazione, potranno essere a disposizione degli addetti ai lavori.
La digitalizzazione è la testimonianza di come la realizzazione e lo sviluppo di servizi innovativi consenta di comprendere il valore storico e culturale, oltre che tecnico, dei prodotti conservati da un’impresa che ben rappresenta il Made in Italy nel mondo.

Il maglificio MF1 sorge a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, e nasce nel 1974: servono nuove divise per la squadra di calcio locale e mamma Elide insegna al figlio Mario a smacchinare e a farle da solo.
Sembra una favola ma è una storia molto concreta: da quella maglia, filo dopo filo, nodo dopo nodo, l’azienda è cresciuta fino ad arrivare alle passerelle della moda internazionale a fianco dei più grandi brand.

MF1 si è caratterizzata nel tempo proprio per quei valori insiti nel Made in Italy e nel sistema dei distretti: il legame con il territorio, la volontà di dare valore e rispetto alle persone che sono considerate risorse preziose, la produzione di alta qualità improntata alla continua ricerca.

MF1 unisce tradizione e innovazione, artigianato e tecnologia.
In linea con questa doppia anima che si muove tra passato e futuro, in linea con la voglia di spingersi oltre, di alzare il livello, di creare, di tendere al nuovo, MF1 tiene al centro le conoscenze delle generazioni passate ma, allo steso tempo, anche la voglia di sperimentare di quelle future.

In un legame vivo e forte con la propria storia, MF1 ha sempre tenuto al centro la tradizione della creazione della maglia: un’arte antica, pazientemente tramandata di generazione in generazione, parte di quel patrimonio manifatturiero e artigiano che ha reso l’Italia un Paese conosciuto in tutto il mondo per l’eccellenza delle lavorazioni, per la forza creativa, per la straordinaria cura del dettaglio.

L’azienda si rivolge alle nuove generazioni con diversi progetti: per esempio, con l’Accademia della Maglia, per la formazione di giovani professionisti nell’arte della maglieria; e, ancora, attraverso una partnership con il Politecnico di Milano per il Corso di Design della Maglieria che ha permesso ad alcuni studenti di vivere l’azienda creando una capsule collection da studiare direttamente presso il Maglificio MF1.

Tutto ciò perché per Mario Foroni – oggi adulto ma mai dimentico dell’esordio accanto alla madre – il successo di MF1 è da sempre legato a doppio filo alle persone: attraverso la loro sensibilità estetica e le loro abilità manuali, la sua azienda è diventata sinonimo di eccellenza nella maglieria e di manifattura di altissima qualità, esclusivamente Made in Italy.
I macchinari sono lo strumento, ma il vero valore nasce dagli artigiani e dai creativi che mettono nei capi passione e sensibilità.

Mario Foroni è un uomo e un imprenditore che crede che la crescita della sua MF1 e di qualsiasi impresa di successo sia fortemente connessa all’ambiente – inteso come persone e luoghi – grazie a una relazione bilaterale, a un continuo scambio di forze ed energie.

Per lui è pertanto un dovere etico offrire occasioni occupazionali, impegnarsi a preservare e arricchire l’arte della maglieria grazie alla ricerca incessante di nuove lavorazioni e materiali, come ho già raccontato qui sopra, e preservare l’ambiente attraverso prodotti eco-compatibili che si inseriscano armonicamente nell’equilibrio ecologico senza alterarlo.

Tra gli strumenti usati, figurano il recupero delle materie prime e la riduzione dell’impatto ambientale.
Il recupero consente che, anziché essere mandati al macero, materie prime e semilavorati assumano nuova vita in contesti e applicazioni differenti dallo scopo originale.
La riduzione dell’impatto ambientale significa invece porre attenzione al ciclo produttivo e alle materie prime utilizzate, eliminando per esempio l’uso di pelli di specie rare e in via di estinzione, sostituite con materiali alternativi resi oggi disponibili dalla tecnologia d’avanguardia.
Per questi motivi, i prodotti MF1 sono completamente tracciabili in quella che è un’assunzione di piena responsabilità da parte dell’azienda che si rende garante, attraverso il proprio marchio, della reale eco-compatibilità dei prodotti.

Tornando all’archivio, posso affermare senza tema di smentita che rappresenta un’autentica fonte d’ispirazione per i professionisti del settore.
L’archivio è visitabile su appuntamento presso la sede di Valeggio sul Mincio e oggi, grazie alla collaborazione di PowerApp, all’analogico si aggiunge il digitale e l’archivio diventa anche piattaforma.
L’archivio digitalizzato si rivolge a un pubblico specializzato ed è pensato nello specifico per fashion designer, art director, stilisti, fashion consultant, studenti di moda che possono accedere alla piattaforma per ispirarsi, consultando in modo semplice e pratico i capi presenti: di facile utilizzo, permette di visualizzare i capi filtrandoli con specifici criteri di selezione quali periodo di creazione, tecniche di lavorazione, tipologia del capo e filato principale.
Ogni capo ha una propria scheda prodotto che contiene foto e informazioni dettagliate, raccontando di più sulla storia e la fattura del capo stesso.
L’archivio digitalizzato sarà accessibile attraverso abbonamento.

Segnalo infine agli appassionati che, dal progetto di digitalizzazione dell’archivio, è nato anche un libro che porta lo stesso nome della mostra.

«Maglia, Punto. Quarant’anni di tesori nascosti dell’archivio MF1» è un volume interessantissimo per tutti gli appassionati di moda e di storia italiana, per tutti gli amanti del bello e del ben fatto, per tutti coloro che non si fermano alla superficie ma che amano andare oltre, proprio come ama fare Mario Foroni.

Ed è proprio con una sua frase che vorrei chiudere questa passeggiata tra moda e qualità.

«Guardiamo il futuro, ma riprendiamoci il passato.
Riprendiamoci la nostra cultura, la nostra arte, la nostra artigianalità, la nostra maestria nel creare capi unici, la nostra fantasia, la volontà di imparare e fare qualcosa in cui siamo e resteremo unici: la maglia.»

Sottoscrivo. Al 100%.
Perché in Italia, in passato e in un passato nemmeno troppo lontano, abbiamo saputo unire cultura e impresa; la crisi è iniziata soprattutto quando ci siamo dimenticati delle persone e della qualità per pensare quasi esclusivamente ai fatturati.

Dunque, non posso che auspicare più imprenditori come Mario Foroni e più aziende come MF1.

Manu

 

 

Se volete seguire MF1 e se siete interessati all’archivio analogico e digitale, qui trovate il sito del maglificio e qui trovate la pagina Facebook.

Qui trovate qualche foto della serata a Villa Necchi Campiglio e attiro in particolare la vostra attenzione su due immagini: un plaid su cui Mario Foroni ha riprodotto un suo ritratto di bambino con la mamma e alcuni capi in esposizione nell’area del campo da tennis coperto.

Se siete interessati al libro «Maglia, Punto. Quarant’anni di tesori nascosti dell’archivio MF1», qui trovate il sito di Silvana Editoriale.

Se siete interessati a Villa Necchi Campiglio e a visitare la mostra, qui e qui trovate i siti dedicati alla bella dimora milanese.

Le foto che corredano questo post sono prese dal mio canale Instagram e sono gli scatti che ho realizzato in occasione della serata di inaugurazione del 23 aprile a Villa Necchi Campiglio; gli scatti in cui sono presente sono opera di Enrico C., la mia metà

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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