Pensieri sul futuro delle sfilate dopo una stagione di fashion week… anomale

MFW & sfilate nella locandina di CNMI (Fonte pagina Facebook)

Agli studenti dei miei corsi racconto come il concetto di sfilata sia cambiato nel tempo, con particolare attenzione a ciò che è successo alle sfilate in Italia.

Il 12 febbraio 1951 fu una sfilata a sancire ufficialmente la nascita della moda italiana, precisamente la sfilata organizzata dall’imprenditore Giovanni Battista Giorgini per i buyer americani a Firenze.
L’intraprendenza di Giorgini, la qualità dei capi presentati, la reputazione dei compratori invitati, l’appoggio di alcuni giornalisti tra i quali la nostra Irene Brin che lavorava in quegli anni per la prestigiosa rivista americana Harper’s Bazaar: furono questi gli elementi che contribuirono a decretare il grande successo dell’evento soprattutto oltreoceano, negli Stati Uniti.
Giorgini intitolò l’evento First Italian High Fashion Show e lo ospitò presso Villa Torrigiani, la sua residenza privata di Firenze: la seconda sfilata si tenne sempre nel 1951 a luglio, stavolta nei saloni del Grand Hotel di Firenze, mentre dal 1952 fu la Sala Bianca di Palazzo Pitti a ospitare due stagioni di sfilate ogni anno, una a gennaio e l’altra a luglio.

Fu necessario aspettare quasi vent’anni perché le sfilate si spostassero definitivamente a Milano e ciò avvenne precisamente nel 1969, quando nacque Milanovendemoda.
La manifestazione venne varata dagli agenti e dai rappresentanti commerciali del settore abbigliamento consociati in Assomoda: il proposito era quello di aprire un dialogo diretto con i buyer a Milano ovvero la città in cui, in quegli anni, cominciavano a moltiplicarsi le sedi degli stilisti e dove di conseguenza si respirava una grande vitalità in ambito moda.

Vi racconto una curiosità.
La prima sede della manifestazione fu quella del circo Medini e dunque i marchi si unirono «ai clown e ai giocolieri» in quella che un documento ufficiale di Assomoda stessa definì «un’allegrissima e ironica festa della moda».
Certo, occorre ammettere che – rispetto alla Sala Bianca di Palazzo Pitti voluta negli Anni Cinquanta da G.B. Giorgini – il contrasto risultava alquanto stridente…

Nel giro di qualche anno, Milanovendemoda trovò la propria sede in un nuovo quartiere della città, precisamente a Milano Due presso il Jolly Hotel, un quartiere realizzato da un imprenditore allora emergente (Silvio Berlusconi…): fra circhi e imprenditori rampanti, emergeva all’orizzonte il profilo di quella che un celebre slogan avrebbe poi definito la «Milano da bere».

Nel giugno 2009, MilanoVendeModa diventò Mi-Milano prêt-à-porter.
A partire dall’edizione del 25-28 settembre 2009, la manifestazione cambiò definitivamente volto e il salone, allora in programma a Fieramilanocity, diventò un insieme di sfilate, mostre, spettacoli e altri eventi capaci di coniugare vari aspetti del Made in Italy.

Tutto ciò si chiama oggi Milano Moda Donna e Milano Moda Uomo, ovvero le settimane della moda – o fashion week – organizzate da Camera Nazionale della Moda Italiana (CNMI).

Ma ecco che arriva il 2020 e arriva, purtroppo, il COVID-19.
La moda figura tra i settori maggiormente colpiti dalla pandemia e dal lockdown ma, per sua stessa natura ed essenza, è anche tra i primi a cercare e studiare nuove modalità di presentazione.

E se l’edizione di febbraio di Milano Moda Donna è stata troncata bruscamente proprio dal primo impatto del virus, l’edizione di settembre ha presentato un nuovo format misto denominato phygital, un mix di eventi fisici e digitali.
In altre parole, dal 22 al 28 settembre, stilisti e marchi hanno deciso se sfilare realmente, in presenza e con pubblico, oppure se sfilare a porte chiuse, senza ospiti e mandando in streaming la sfilata.

Com’è andata? – state forse per chiedermi.

E poi c’è la questione più grande: le sfilate in digitale funzionano veramente?

Rispondere non è né semplice né immediato.

Dopo aver raccontato il mio punto di vista già lo scorso aprile (qui), posso integrare quelle prime idee con un bilancio post Milano Fashion Week, anzi, post settimane della moda di settembre delle Big Four (New York, Londra, Milano, Parigi) tutte in versione phygital.

Ora che i riflettori si sono spenti anche su Parigi, il quadro è abbastanza completo e, d’impatto, sento di poter affermare che tale bilancio è, nel complesso, onorevole.

Parlando di Milano, per esempio, si può tranquillamente dire che CNMI, stilisti e marchi hanno dimostrato di essere capaci di gestire l’evento in sicurezza, organizzando una settimana di eventi che, di fatto, segnano l’ingresso della moda in una nuova era.

E poi, oltre alla capacità gestionale e di reazione, ci sono stati altri punti positivi.

È la prima volta, per esempio, che una fashion week ha un impatto ambientale decisamente basso: il traffico del centro di Milano non è mai stato così fluido in un periodo simile.

In molti affermano che «questa volta è stato molto meglio»: è stato possibile prendersi il ​​tempo per godersi le sfilate, senza dover correre trafelati a quella successiva magari dall’altra parte della città, ed è stato possibile approfittare del momento con una certa convivialità.

Eppure… non sono tutte rose e fiori.

Il traffico zero è ottimo per l’ambiente ma è sinonimo di no buyer e no giornalisti internazionali e ciò rappresenta un duro colpo per l’indotto che, di solito, la settimana della moda genera con un beneficio per tutta la città.
E sono certa che tutto ciò valga allo stesso modo per New York, Londra e Parigi.

Come dicevo, esulando dalle singole città, c’è poi la questione dello streaming, punto cruciale slegato da singole analisi geografiche e territoriali.

Come hanno evidenziato varie riviste di settore, lo streaming ha raggiunto soglie senza precedenti: Pambianco ha raccontato (qui) come la sfilata prêt-à-porter primavera/estate 2021 di Dior abbia totalizzato 95 milioni (!) di visualizzazioni.
La passerella dedicata alle proposte ideate da Maria Grazia Chiuri, Direttore Creativo della linea donna Dior, è stata allestita martedì 29 settembre durante la Paris Fashion Week e ha ospitato nel parterre gli addetti ai lavori ma, soprattutto, ha catalizzato l’attenzione del pubblico online.

Per contro, sempre Pambianco, racconta (qui) come i social siano stati invece un boomerang per un altro marchio blasonato, ovvero Burberry: la sfilata co-ed (uomo & donna) del brand, evento di punta della London Fashion Week, ha pagato in modo tangibile, sempre secondo gli addetti ai lavori, la volontà di fare sensazione con lo streaming.
Sebbene la collezione abbia ricevuto buone recensioni, la messa in scena ha sollevato più di un dubbio da parte di alcuni giornalisti e degli stessi utenti che hanno seguito online la performance: in poche parole, la sfilata è stata ‘inghiottita’ dalla visual experience.
E il magazine sentenzia (giustamente, a mio avviso) «non è tutto oro quello che è social».

Ed ecco qui un grosso potenziale rischio delle sfilate in versione digitale: che spettacolo e spettacolarizzazione – ritenuti da alcuni necessari per sopperire alla mancata presenza fisica – ‘seppelliscano’ i capi facendoli passare in secondo piano.

Eppure… «indietro non si torna»: così ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della nostra CNMI, dimostrando di credere fermamente nel connubio tra sfilate live e condivisione digitale.

Sapete una cosa?

Gli do ragione e gli do ragione perché – come ho cercato di dire proprio raccontando come si siano evolute le sfilate nel tempo – è normale che la moda sia in costante cambiamento così com’è normale che cambi il modo di presentarla e raccontarla; tuttavia, le regole di tale convivenza tra fisico e digitale devono ancora essere messe a punto.

«Il digitale – ha dichiarato ancora Capasa a Pambianco (qui) – si è guadagnato un posto importante. Poi, l’uso che ne faremo è tutto da vedere. La stessa sfilata fisica trasmessa in digitale ha un riscontro numerico pazzesco, non credo ne potremo fare a meno in futuro e affineremo ancora di più il mezzo e il senso delle cose. Ci sono momenti che possono restare solo fisici o solo digitali, altri in cui c’è convivenza. Lo show fisico è molto importante specialmente per gli addetti ai lavori e trasferisce un’emozione immediata che a volte è difficile replicare con il digitale. Credo che fisico e digitale si compenetrino, si possono usare entrambi i mezzi e stiamo facendo proprio questo in maniera fluida. Si andrà sempre di più verso un affinamento del linguaggio; fisico e digitale hanno dimostrato di essere essenziali nella moda e credo nessuno possa pensare di abbandonare uno dei due.»

Direi che il suo pensiero è chiaro e anche condivisibile.

L’ho già scritto in passato e lo ribadisco nuovamente: in qualità di fashion editor, ho sempre preferito vedere le sfilate dal vivo, da vicino, per poter godere dei contenuti, della parte qualitativa e sensoriale, dal movimento di un abito alla sua caduta, dal fruscio del tessuto a luce e ombre che esso crea.

La sfilata è – o è ancora – insostituibile: per essere davvero apprezzati, agli abiti serve movimento.
Vanno visti su un corpo – e non su una gruccia.
E questo vale se si è fashion editor (e quindi se si deve raccontare, scegliere o criticare), se si è buyer (ancor di più, perché si fanno acquisti che vanno in negozio e devono piacere ed essere venduti), se si è parte del pubblico finale (perché si comprano e si indossano quegli abiti chiudendo un cerchio).

A livello di professionisti, c’è poi da considerare anche un ulteriore fattore costituito dai rapporti umani.
Le settimane della moda non sono solo il momento delle sfilate, sono altrettanto importanti (se non di più…) le interazioni che si svolgono oltre la passerella, gli incontri con i designer e con tutta una serie di figure come giornalisti, fotografi, buyer, incontri che garantiscono confronti interessanti e costruttivi.
Non parliamo poi di press day e presentazioni stampa, quando un editor ha la possibilità di toccare un tessuto, accarezzarlo, parlare con uno stilista, ascoltare la sua voce facendosi trasportare mentre racconta la genesi di una collezione…

Le sfilate in versione digital non possono e non devono dunque trasformarsi in un’occasione mancata.

In nome dell’urgenza di creare uno spettacolo accattivante, ovvero adatto alla fruizione via schermo del pc o dello smartphone, stilisti e brand non devono cedere alla tentazione di mandare in scena sfilate nelle quali gli abiti diventano quasi dettagli da far passare in secondo piano.

Devono – al contrario – esplorare le possibilità di un mezzo tecnologico che potrebbe consentire di fare zoom su particolari quasi invisibili perfino a occhio nudo e perfino se seduti vicino alla passerella, come per esempio la grana della stoffa o il dettaglio di una cucitura.

Devono trovare e proporre nuovi modi di fruire la moda, partendo dall’ambito professionale e dunque soprattutto per buyer (ai quali dello spettacolo importa davvero poco) e stampa.

La strada verso la soluzione è meravigliosamente semplice, nella maggior parte dei casi, eppure sembra che noi esseri umani troviamo divertente renderla invece complicata.
Tecnologie quali lo streaming non dovrebbero servire a perpetrare errori già commessi negli ultimi anni (portare avanti un’inutile spettacolarizzazione che spesso serve solo a coprire la mancanza di contenuti, idee, prodotti); dovremmo bensì essere tanto intelligenti da usarli per ciò che sono, ovvero mezzi straordinari da mettere al servizio della moda e non certa per renderla più misteriosa, più lontana, più enigmatica ma più comprensibile, fruibile e – quindi – più efficace.

Lo spettacolo non deve offuscare, mangiare, seppellire ciò che le sfilate dovrebbero essere: la presentazione degli abiti, in un bel contorno, certo, con la musica (è così da sempre!) ma non trasformandosi in uno show tale da confondere stampa e buyer anziché rivelare.

D’altronde, la sfida della concretezza in ambito sfilate è la stessa che la vendita al dettaglio (o retail) sta già affrontando da tempo e – a mio avviso con un approccio vincente – nei confronti del pubblico finale.

Gli e-commerce di maggior successo sono quelli in grado di offrire un’esperienza vicina alla realtà, solida, concreta e poco pindarica, con quante più informazioni possibili (per esempio trasparenza riguardo la filiera), con possibilità di fare zoom sui dettagli, con possibilità di vedere il capo in più viste, magari indossato e in movimento (e sono in diversi a farlo già, cosa che permette ancora una volta di valutare la caduta dei capi).

Ecco, cari amici, questa è la mia osservazione, questi sono i dati che ho raccolto, questi sono alcuni miei pensieri sul futuro delle sfilate.

E il presente post mi serve anche a introdurre il racconto dell’unica sfilata alla quale io abbia fisicamente assistito durante questo ultimo fashion month.

Si tratta della sfilata di Mario Dice, uno stilista che è profondamente convinto del fatto che la moda abbia bisogno della dimensione fisica, senza troppi clamori (inutili) ma badando alla qualità e alla concretezza di ciò che si presenta.

Siete curiosi? E allora vi do appuntamento tra qualche giorno.

Manu

 

 

 

 

 

A glittering woman è anche su Facebook | Twitter | Instagram

 

Sharing is caring: se vi va, qui sotto trovate alcuni pulsanti di condivisione

 

 

 

 

 

Spread the love

Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Lascia un commento

Nome*

email* (not published)

website

error: Sii glittering... non copiare :-)