A loving tribute to the great photographer Bill Cunningham

Bill Cunningham alla sua scrivania nella redazione del New York Times

Ho saputo della morte di Bill Cunningham navigando su Instagram: era circa l’una di notte di sabato scorso, la notizia era appena trapelata e il social network si è rapidamente riempito di foto in suo ricordo.
Mi si è gelato il sangue perché quest’uomo di 87 ani era uno dei miei miti. Non solo per quanto riguarda la moda, ma molto più in generale.
Quella notte, ho spento la luce attorno alle tre: non mi davo pace e forse speravo fosse uno scherzo di pessimo gusto.
Non lo era e oggi, a distanza di una settimana, desidero rendere omaggio a questo grande uomo, un piccolo tributo un po’ più organizzato delle prime parole da me pubblicate su Instagram quella notte.

Sebbene non abbia bisogno di presentazioni – e tanto meno della mia – desidero raccontare alcune cose a proposito di Bill Cunningham.
Era nato nel 1929 ed è stato uno dei più famosi fotografi di moda americani: per 40 anni ha realizzato fotografie e ha commentato le nuove tendenze sia delle passerelle sia delle strade dalle pagine del New York Times.
Aveva iniziato la sua carriera disegnando e realizzando cappelli, una passione nutrita fin da bambino, poi iniziò a lavorare come giornalista di moda per Women’s Wear Daily (WWD) dove però litigò con il direttore John Fairchild su chi fosse il migliore stilista tra Yves Saint Laurent e André Courrèges. Fairchild propendeva per Saint Laurent e Mr. Cunningham volle mantenere la sua libertà: non accettò che gli fosse impedito di scrivere di Courrèges e dunque lasciò WWD.
In seguito, collaborò con il Chicago Tribune e con la rivista Details: nel 1966, il fotografo David Montgomery gli portò una macchina fotografica da pochi dollari dicendogli di usarla come se fosse un taccuino per appunti. Bill Cunningham lo prese in parola.
La collaborazione con il New York Times iniziò negli anni ’70 e nel 1978 ottenne una rubrica tutta sua: senza sapere chi fosse, fotografò una donna in strada. La donna aveva attirato la sua attenzione per una stola di pelliccia di nutria: era l’attrice Greta Garbo, allora 73enne, e quello scatto fu il punto di partenza della rubrica On the street.
Bill Cunningham era anche considerato un simbolo della città di New York: poteva infatti capitare di vederlo scattare foto ai passanti perché frequentava sì le sfilate e le cene di gala (alle quali si recava solo per lavorare e mai per prenderne parte, come racconta anche Jacob Bernstein in un bellissimo articolo per il New York Times) ma frequentava anche e soprattutto le strade cittadine dove fotografava chiunque indossasse qualcosa di bello.
Nel mondo della moda – un mondo bizzarro, occorre ammetterlo, e spesso con leggi tutte sue – era noto a tutti ed era molto apprezzato nonostante avesse un carattere schivo e vivesse in modo isolato, caratteristica che di solito non aiuta chi voglia lavorare in tale ambito.
Pensate che Anna Wintour, direttrice di Vogue, ha più volte detto “We all get dressed for Bill”, ovvero “Ci vestiamo pensando a Bill”. Lei, la temutissima imperatrice della moda.

Sul New York Times, Bill Cunningham aveva due rubriche, quella che ho già citato, ovvero On the Street, e Evening Hours.
La prima raccoglieva fotografie scattate per le strade di New York e assemblate in modo tale da mostrare le ultime tendenze da lui individuate; l’altra rubrica era invece dedicata alla vita mondana newyorkese.

Bill Cunningham ha portato avanti un’osservazione costante, riuscendo a raccontare l’evolvere degli stili nelle strade nonché come le persone usano e abbinano tra loro i capi di abbigliamento disegnati e proposti da stilisti e brand.
Nelle sue foto, c’è il mondo in ogni sua sfaccettatura: persone di tutte le razze, etnie, età. Persone abituate a spendere fortune in abiti e accessori e persone capaci di mettere insieme outfit d’effetto con poco.
Le foto di Bill Cunningham non hanno immortalato solo la moda ma il modo in cui essa viene vissuta e dunque ha raccontato l’interazione tra la moda e la società.
È stato un attento testimone dell’evoluzione del costume.
È stato un narratore della moda nel senso che preferisco.

L’esordio di Bill Cunningham sul <em>New York Times</em> nel 1978 con la foto scattata a Greta Garbo
L’esordio di Bill Cunningham sul New York Times nel 1978 con la foto scattata a Greta Garbo
Bill Cunningham fotografa Anna Wintour
Bill Cunningham fotografa Anna Wintour
Bill Cunningham in azione nelle strade di Manhattan
Bill Cunningham in azione nelle strade di Manhattan
Sopra: Bill Cunningham fotografa una bambina, giugno 2015, New York (Cindy Ord/Getty Images for European Wax Centers) | Sotto: alcune foto di Bill Cunningham per il New York Times
Sopra: Bill Cunningham fotografa una bambina, giugno 2015, New York (Cindy Ord/Getty Images for European Wax Centers) | Sotto: alcune foto di Bill Cunningham per il New York Times

È doveroso sottolineare che Bill Cunningham iniziò a fare tutto ciò molto tempo prima di Internet e dei social network, molto prima del successo di The Sartorialist alias Scott Schuman.
Non ho nulla contro Schuman e il suo lavoro, lo preciso subito, ma quando sento qualcuno parlare di lui come un pioniere di quel genere chiamato street style mi si accappona la pelle.
Lo ripeto, la rubrica On the Street è sul New York Times dal 1978.
Non solo: permettetemi di affermare che esistono due sostanziali differenze tra Bill Cunningham e Scott Schuman (nonché molti altri fotografi, non tutti, oggi celebri per lo street style).

La prima differenza è che le immagini di Bill Cunningham erano – e sono – definite, giustamente e a pieno titolo, candid photograph, ovvero quel tipo di fotografie realizzate senza creare una posa studiata ad arte. Si tratta di veri e propri scatti rubati, catturati al volo.
Lui stesso diceva del suo lavoro: “Quando fotografo, cerco lo stile personale e il modo in cui qualcosa è indossato, a volte anche come un ombrello è portato o come un cappotto viene tenuto chiuso. Alle feste, è importante che io sia quasi invisibile in modo tale da cogliere le persone inconsapevoli rispetto alla presenza dell’obiettivo, per cogliere l’intensità del loro modo di parlare e la loro gestualità. Sono interessato a catturare un momento ricco di animazione e spirito”.
E ancora: “Il problema è che non sono un bravo fotografo. A essere onesti sono troppo timido, non abbastanza aggressivo. Cioè, per nulla aggressivo. Amavo semplicemente vedere donne vestite magnificamente, ed è ancora così. E questo è tutto”.
Credetemi se vi dico che, oggi, in alcuni dei fotografi di street style non c’è nulla di veramente rubato o catturato al volo. Tutto – o quasi – è studiato, incluse le pose (so che mi farò dei nemici, ma è necessario dire la verità).
Non mi credete? Guardate una foto di Bill Cunningham e guardatene una di Scott Schuman e sono certa noterete la differenza.
Per carità, non c’è nulla di male, il lavoro di Schuman è – forse – un’evoluzione e i differenti punti di vista possono sicuramente convivere, ma consentitemi di dire che io preferisco la genuinità, la spontaneità e la veridicità di Bill Cunningham.
Naturalmente può capitare che il soggetto fotografato si accorga dell’intenzione del fotografo e che, magari, gli doni un sorriso (come la Wintour per Mr. Cunningham): ciò che non mi piace, però, è la foto concordata, per giunta con richiesta da parte del fotografo di pose, posture e gesti precisi. Ecco, a mio umile avviso questo cessa di essere genuino e sicuramente non è uno scatto rubato, come invece scrivono poi alcuni nelle didascalie.

La seconda cosa che differenzia – uso appositamente il presente – il lavoro di Bill Cunnigham da quello di molti altri è quel suo atteggiamento defilato: “He wanted to observe, rather than be observed”, scrive sempre Jacob Bernstein nel suo articolo per il New York Times.
“Voleva osservare piuttosto che essere osservato”. Insomma, non aveva bisogno di essere notato.
Sebbene il suo talento fosse ben noto a tutti, Mr. Cunningham preferiva l’anonimato, preferiva fare semplicemente il suo lavoro senza essere una celebrità. Non voleva essere un protagonista e questa è una cosa che lo rende davvero unico.
Eppure Mr. Cunningham si divertiva, eccome. Eppure Mr. Cunningham era amato, eccome. Da tutti e non dai soli addetti ai lavori.

In tantissimi articoli, ricordi e commenti presenti su qualsiasi social network, non ho letto una sola parola contro di lui: tutti lo reputavano gentile e disponibile, sempre sorridente. E infatti è raro trovare una foto che lo ritragga senza sorriso.
E la cosa buffa è che è diventato comunque una celebrità, suo malgrado, a ennesima riprova che se una persona è davvero una icona sono gli altri a riconoscerlo tale, senza necessità di atteggiamenti da star o di capricci o di stranezze studiate ad arte.

Anna Piaggi fotografata da Bill Cunningham nel 1984
Anna Piaggi fotografata da Bill Cunningham nel 1984
Bill Cunningham con la sua bicicletta e due signore lungo la strada
Bill Cunningham con la sua bicicletta e due signore lungo la strada
Sopra: Bill Cunningham e il suo letto circondato dagli schedari nel suo piccolo appartamento | Sotto: Bill Cunningham e Iris Apfel
Sopra: Bill Cunningham e il suo letto circondato dagli schedari nel suo piccolo appartamento | Sotto: Bill Cunningham e Iris Apfel

Amavo Bill Cunningham per le sue foto, per il suo lavoro, per questa sua essenza pura, semplice, pulita.
Era una persona che faceva un lavoro che amava senza credersi onnipotente.
Lo amavo perché a sua volta amava fotografare altre icone come Anna Piaggi e Iris Apfel, ma anche persone cosiddette normali, come Louise Doktor, una segretaria newyorkese con uno stile molto originale che lui ha fotografato per 25 anni. La maggior parte delle persone che ritrasse più volte non era famosa, semplicemente si distingueva per il gusto particolare nel vestire.
Lo amavo perché un’altra delle sue idee sulla moda era che i “don’ts”, cioè i consigli su cosa non indossare, sono sbagliati e che ognuno può vestirsi come preferisce. Amava la moda, ma credo che amasse le persone ancora di più, nella loro inesauribile varietà di personalità, forme, colori, movimenti: le sue foto erano espressione di un’inesauribile fiducia nell’umanità e questo non può che emozionarmi, profondamente.
Lo amavo perché è riuscito a restare fedele a sé stesso, per esempio conducendo una vita semplice. Si spostava in bicicletta, uno dei suoi tratti distintivi insieme al sorriso e alle giacche blu, e affermava “Money is the cheapest thing. Liberty and freedom is the most expensive”. E qui non traduco nemmeno, perché mi è venuto un groppo in gola.
Quanto aveva ragione e quanto l’ha dimostrato, ben oltre le parole, come quando ha rinunciato al lavoro per WWD per difendere le sue idee, e la coerenza, soprattutto oggigiorno, è tanto rara quanto commovente.

Sabato scorso, nel cuore della notte, ho scritto su Instagram che le vere icone non fanno chiasso né cercano il clamore a tutti i costi. Lasciano che a parlare sia il loro lavoro e con quello lasciano una traccia: nel caso di Bill Cunningham, la traccia è luminosa e indimenticabile così come il sorriso che lo accompagnava.
E ho concluso sostenendo che, da qualche parte che non è più questo mondo, va costituendosi una bella compagnia di persone speciali.

Ecco, lo penso sul serio.

Manu

 

 

 

Se volete conoscere meglio il lavoro di Bill Cunningham, qui trovate la sezione del New York Times in cui sono raccolti i suoi video e qui trovate i suoi articoli.

Bill Cunningham racconta sé stesso in un articolo pubblicato per la prima volta nel 2002.

Il bellissimo articolo di Jacob Bernstein per il New York Times; l’emozionante ricordo scritto da Lynn Yaeger per Vogue; l’interessante e dettagliato articolo di Ludovica Lugli per Il Post.

Nel 2010, il regista Richard Press realizzò un documentario sulla vita e il lavoro di Bill Cunningham: si intitola Bill Cunningham New York e dura circa due ore. Curiosità: Mr. Cunningham partecipò alla serata di presentazione del documentario (e ne approfittò per scattare molte foto ai presenti), ma non assistette alla proiezione e pare che non abbia mai visto il film. Qui trovate il sito e qui la pagina Facebook del documentario.

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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