Afghanistan, dai libri di Khaled Hosseini alla crisi di oggi

Undici anni fa, tra la primavera e l’estate del 2010, lessi Il cacciatore di aquiloni e Mille splendidi soli, i due grandi successi di Khaled Hosseini ambientati in Afghanistan.

Figlio di un diplomatico e di un’insegnante, Hosseini è nato nel 1965 a Kabul dove ha vissuto la sua infanzia.
Dal 1980, dopo aver ottenuto asilo politico in seguito all’arrivo dei russi, vive negli Stati Uniti con la moglie e i due figli.
Laureato in medicina, è autore del libro Il cacciatore di aquiloni, pubblicato nel 2003 (e che come racconta lui stesso aveva iniziato a scrivere sei mesi prima del crollo della Torri Gemelle); nel 2007 ha pubblicato il suo secondo libro intitolato Mille splendidi soli.
Sempre come racconta lui nella prefazione de Il cacciatore di aquiloni e proprio come Amir, il protagonista di quel romanzo, Khaled Hosseini ha iniziato a scrivere da bambino, negli Anni Settanta, nella sua Kabul.
È tornato in Afghanistan nel 2006 come inviato degli Stati Uniti per l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Nei suoi libri, Hosseini parla dunque del suo Paese, naturalmente partendo dal proprio vissuto e dai ricordi personali del periodo pre-sovietico – ma non solo.
Attraverso i suoi personaggi parla delle varie fasi della storia tormentata dell’Afghanistan, della vita quotidiana, della condizione femminile e delle minoranze etniche. E parla di amicizie che salvano e condannano.

Era inevitabile che, appena tornata dal mio viaggio in Normandia del mese di agosto, periodo durante il quale è scoppiata la nuova crisi afghana che ha generato in me grande angoscia e molti pensieri (alcuni li ho raccolti qui), io cercassi subito i volumi di Hosseini nella mia libreria, perché certi libri meritano di essere riletti in quanto sono capaci di valicare il tempo.

Ho deciso di iniziare da Mille splendidi soli perché è la storia di due donne, Mariam e Laila.

Mariam vive isolata da tutti con la madre Nana: il padre Jalil, ricco commerciante, la va a trovare ogni settimana e le vuole bene ma si vergogna di lei, poiché è una figlia illegittima, una harami, ovvero una bastarda.
Il giorno del suo quindicesimo compleanno, Mariam decide di andare a trovare il padre: Jalil rifiuta di riceverla e, quando la ragazza fa ritorno a casa, trova la madre morta suicida.
La famiglia di Jalil decide di dare Mariam in sposa a Rashid, un uomo molto più grande che fa il calzolaio a Kabul e che, all’inizio, sembra poter rappresentare l’inizio di una nuova vita.
Mariam rimane incinta ma subisce un aborto, il primo di una lunga serie, e da quel momento Rashid, deluso e arrabbiato, maltratterà Mariam fino a non considerarla più come una moglie, ma una serva.

Laila non potrebbe essere più diversa da Mariam: è amata e ha un’ottima istruzione grazie al padre Hakim, un tempo professore universitario.
Laila è molto legata anche al giovane Tariq: i due crescono insieme quasi come fratelli e Laila è ormai quattordicenne quando viene a sapere che il ragazzo, del quale nel frattempo si è innamorata ricambiata, abbandonerà l’Afghanistan a causa della guerra.
Dopo poco tempo anche la famiglia di Laila decide di partire per il Pakistan ma, appena prima della partenza, un razzo colpisce la casa di Laila uccidendo orribilmente i suoi genitori e lasciandola orfana.

Ed è a questo punto che i destini di Mariam e Laila si incrociano per legarsi indissolubilmente.

Laila viene infatti recuperata tra le macerie della propria casa da Rashid che, dopo averle dato la notizia che anche Tariq è morto, le propone di prenderla in sposa come seconda moglie.
La notizia è falsa, è un orribile inganno, ma la ragazza ignara e disperata accetta la proposta.
Rashid è felicissimo ma, dopo la nascita di una bimba e la sua conseguente delusione per non avere avuto il tanto desiderato erede maschio, inizierà a maltrattare anche Laila.

Accade però qualcosa che, forse, Rashid non ha messo in conto: tra le due donne, così diverse e inizialmente rese nemiche dalla sua scelta di sposare Laila in seconde nozze, inizia a nascere un rapporto e, nel tempo, l’amicizia si trasforma in una vera e propria sorellanza, nella loro forza.

Non aggiungerò nient’altro e ho taciuto intenzionalmente alcuni particolari importanti poiché spero che, a vostra volta, vogliate leggere il libro.
Quanto ho narrato serve però a dirvi ciò che mi aveva colpito nel 2010 e che mi ha tolto il fiato di nuovo oggi – anzi, se possibile con una forza e un’intensità ancora maggiori: mi riferisco al fatto che sia Mariam sia Laila si trovino a subire una condizione orrenda, di sottomissione e violenza.
Laila non viene salvata dal fatto di essere figlia di un padre progressista, che crede nell’importanza delle donne e della loro istruzione allo scopo della ricostruzione di un nuovo Afghanistan: fuori dalle mura di casa propria, la ragazza conosce la violenza e una mentalità che non le sono familiari.
E Mariam non beneficia mai dei momenti considerati ‘buoni per essere donna in Afghanistan’, come li definisce il padre di Laila in un fugace momento di speranza.

Non vi nascondo che ho dovuto interrompere varie volte la lettura del libro per il troppo dolore.
Non vi nascondo che ho pianto più volte, lacrime copiose, quasi singhiozzi.

Ma desidero condividere con voi i pensieri che Miriam e Laila hanno fatto scattare nella mia testa grazie a Hosseini, perché queste due donne frutto della fantasia letteraria possono essere considerate l’emblema di tantissime donne reali in Afghanistan, visto che lo scrittore ben conosce la realtà del suo Paese.

Parto da una consapevolezza che ho maturato ormai da tempo e che sempre più si consolida leggendo, studiando, imparando.
Non è un mistero e lo racconta la storia: le donne sono state sistematicamente condannate a subire violenze atroci, in qualsiasi epoca, pressoché in qualsiasi civiltà, a qualsiasi latitudine.

L’elenco delle violenze è, purtroppo, infinito.
Rapite, vendute, schiavizzate, scambiate come bottino di guerra ed esibite come trofei.
Stuprate per sadismo e possesso, per intimidire popolazioni civili oppure per ricompensare (ricompensare…) miliziani e mercenari.
Immolate sulla stessa pira del marito defunto.
Martirizzate e umiliate da mutilazioni genitali e cinture di castità.
Lapidate.
Paragonate al demonio e bruciate come streghe.
Obbligate a matrimoni forzati in età precoce e sfiancate da infinite gravidanze come semplici esseri da riproduzione.
Escluse dall’istruzione e dal lavoro.

In qualsiasi Paese del mondo, i diritti delle donne sono stati delle conquiste, non sono mai stati scontati né sono stati gratuiti: sono stati acquisiti, ahimè, con grandi battaglie.
D’altro canto, come ho già raccontato in un’altra occasione (qui), in Italia abbiamo dovuto attendere il 5 agosto 1981 (1981 – lo sottolineo) perché la legge 442 cancellasse finalmente dal codice penale italiano il delitto d’onore e il matrimonio riparatore: fino ad allora, gli uomini che uccidevano mogli, figlie o sorelle che avessero arrecato ‘disonore’ beneficiavano di uno sconto di pena…
E oggi la piaga dei femminicidi riguarda moltissimi Paesi cosiddetti ‘industrializzati e avanzati’, incluso il nostro…

Mariam e Laila hanno inoltre creato un parallelo nella mia mente, quello tra le loro storie (romanzate, certo, ma che, lo ripeto, rappresentano innumerevoli altre vite e altre storie) e ciò che accade oggi in Afghanistan – e ciò che rischiano le donne di ogni età e di ogni estrazione familiare e sociale.

Mi tormenta l’idea che, in qualche modo, attraverso i ricordi personali o attraverso i racconti di nonne e mamme, le donne afghane di oggi forse sapevano o magari temevano che i loro diritti potevano non essere per sempre.
Forse, oltre a speranza e fiducia, albergava in qualche modo in loro il timore che si potesse tornare indietro, per averlo vissuto sulla propria pelle o per averlo sentito narrare. Senza contare le donne che non hanno mai comunque goduto di alcun diritto, nemmeno nei momenti ‘migliori’ per le donne – proprio come accade a Mariam nel romanzo di Hosseini.

Ecco, immedesimiamoci per un attimo in una donna nata poco prima o dopo il 2001 (l’anno in cui i talebani erano stati sconfitti dalla coalizione guidata dagli USA) e di aver dunque conosciuto quelli che noi occidentali consideriamo diritti fondamentali – ovvero pensare, scegliere, ridere, amare, studiare, lavorare; proviamo a immaginare che tutto ciò finisca da un giorno all’altro, d’un tratto, che ci venga sottratto per essere sostituito da imposizioni, sottomissione, silenzio, violenza.
C’è da impazzire. C’è da accarezzare il pensiero della morte…
È esattamente ciò che accade a Laila nel romanzo: a salvarla non basta l’educazione ricevuta, non basta una famiglia e un padre progressista, attorno a lei tutto cambia violentemente da un giorno all’altro e, d’un tratto, anche Laila diventa… una preda.

Lasciatemi allora fare un’affermazione molto forte.
Quanto sta accadendo in Afghanistan ci impartisce una lezione dolorosissima – ovvero che nulla è definitivo e nulla è per sempre: se non poniamo solide basi, ciò che ci appare oggi come una conquista consolidata e anche un po’ scontata potrebbe essere messo in discussione domani e potrebbe esserci tolto e diventare un diritto negato.
I diritti devono essere coltivati e anche costantemente difesi (… vorrei ricordare quanto sta succedendo in Texas, negli Stati Uniti, a proposito di aborto…) e nessun accadimento è mai troppo lontano da noi perché questa Terra è in realtà molto piccola.

Pensare che una tragedia come quella dell’Afghanistan non ci riguardi perché abitiamo a migliaia di chilometri di distanza è disgustoso. È un grosso errore. Ed è una sciocca illusione, perché esiste un solo mondo nel quale viviamo tutti insieme.

Indifferenza e disinteresse – oltre a essere disgustosi e nauseanti, lo ribadisco – sono vizi che non possiamo permetterci, soprattutto se si tratta di vite e di diritti che dovrebbero essere fondamentali e inalienabili.

Non possiamo girarci dall’altra parte, non possiamo fare finta di niente: le donne afghane sono nostre sorelle.
Tutte le donne del mondo dovrebbero essere sorelle unite indissolubilmente dal dolore subito e dalla speranza verso il futuro.

Condivido un ulteriore pensiero.

Non ho mai pensato o sostenuto che le donne siano migliori degli uomini. Né ho mai pensato che noi donne siamo sante a priori.
Le donne possono essere stronze, cattive, maligne, corrotte esattamente quanto possono esserlo gli uomini. Possono essere sensibili, integre, oneste, generose esattamente quanto possono esserlo gli uomini.
Ho sempre creduto nelle persone di buona volontà, indipendentemente da sesso o genere: una donna deve avere un posto solo se è all’altezza di quel posto, un uomo deve poter manifestare la propria sensibilità senza essere deriso o sminuito.
Dunque non posso accettare di valere meno perché donna, di non avere lo stesso accesso a istruzione e lavoro perché donna, di non poter accedere a una posizione perché donna, di non poter mirare a qualcosa perché ‘non da donna’.
Non posso accettare che altre donne subiscano soprusi, limitazioni, violenze perché sono nate e vivono in Afghanistan.

Non so se questo faccia di me una femminista anche perché, in fondo, delle definizioni e degli appellativi mi è sempre interessato molto poco.
È femminismo credere nella parità di doveri, diritti e opportunità?
Se lo è, se questo è il significato del termine… d’accordo, sono una femminista.

«Finché c’è una donna minacciata in quanto donna, nessuna di noi può vivere in pace»: sono le parole che ha scritto Lidia Ravera in un post pubblicato nella sua pagina Facebook.
E Lidia Ravera (classe 1951, scrittrice e giornalista con un passato di militanza nella sinistra e nel femminismo, lei sì, a pieno titolo) fa un’ulteriore dichiarazione molto forte in un’intervista a Rory Cappelli (qui) per Repubblica.

«L’Afghanistan è una parte del mondo, non una periferia dell’impero: finché c’è un talebano che perseguita le donne, che pretende un modello di femminilità contro cui abbiamo combattuto tutta la vita, come possiamo restare tranquille? Io ho iniziato questa lotta quando avevo 14 anni: e adesso, alla mia veneranda età, mi devo trovare con donne che non possono studiare, non possono guidare, non possono realizzarsi, non possono andare a ballare, non si possono truccare, non possono amare. La situazione è politicamente intollerabile, è uno schiaffo alle battaglie di un’intera vita: e non ci sono giustificazioni relativistiche, come ‘ogni Paese ha una sua tradizione’. Qui si tratta di prendere metà del cielo e accettare che viva sottoposta all’altra metà: è intollerabile.»

Non aggiungo altro.

Nel frattempo ho riletto anche Il cacciatore di aquiloni e ora voglio passare a La parrucchiera di Kabul, un altro libro sull’Afghanistan scritto da Deborah Rodriguez, la volontaria americana che nel 2002 ha dato un contributo fondamentale al progetto della Kabul Beauty School.

Il Cacciatore di aquiloni è un’altra storia di amicizia, stavolta al maschile, tra Amir e Hassan.
Ed è una storia dolorosa quanto quella di Mariam e Laila perché l’atroce verità è che in Afghanistan non sono a rischio esclusivamente donne e ragazze, ma tutte le persone che hanno creduto e credono nella libertà.

C’è qualcuno che ancora davvero crede che ciò che sta accadendo in Afghanistan non riguardi tutti noi?

Manu

 

Se come me cercate modi per fare qualcosa di concreto per l’Afghanistan… qui ho provato a suggerirne uno.

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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