Il guardaroba disperso, un talk attorno a Valentina Cortese

Ho raccontato in un precedente articolo che, dal 2 al 26 marzo 2023, lo spazio IsolaSET di Milano ha ospitato una mostra interamente dedicata alla celeberrima attrice Valentina Cortese (1923 – 2019).

Curata da Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti per Regione Lombardia e inquadrata nell’ambito dei festeggiamenti per il 100° anniversario della nascita della Cortese, la mostra ha rappresentato un omaggio a una donna e diva fuori dall’ordinario, attraverso un percorso fatto di fotografie e reperti originali che sono stati inoltre accompagnati da un ricco catalogo, da una rassegna cinematografica e da un programma di talk di approfondimento.

Come avevo accennato già in quel mio primo articolo, Elisabetta Invernici ha voluto che anch’io facessi parte di uno dei talk, anzi, di due, visto che sono stata invitata anche al successivo; non smetterò mai di essere grata a Elisabetta per avermi voluta con sé e per la preziosa opportunità che mi ha dato.

Il guardaroba disperso, la moda interpretata da Valentina Cortese: era questo il titolo del talk.

Perché guardaroba disperso?

Perché il presupposto è stato proprio il guardaroba di Valentina Cortese andato all’asta, e quindi frazionato tra vari collezionisti, nel marzo 2022 (e dell’asta avevo parlato qui).

Di cosa abbiamo quindi parlato?

Tengo prima di tutto a fare una precisazione: i termini moda e abito sono stati da noi intesi nel loro significato più puro ed elevato, ovvero moda non come semplice e continuo avvicendarsi di tendenze o come sinonimo di capi di grande popolarità e diffusione bensì moda dal latino modus «modo, foggia, maniera» nonché abito dal latino habĭtus da habēre nel significato di «comportarsi».

Abbiamo dunque voluto parlare di moda e abiti come espressione ed estensione dei pensieri, dei sentimenti e delle abitudini della Cortese e, in quest’ottica, sono partita dall’abito che avevo fotografato a Palazzo Morando lo scorso settembre e che potete vedere in alcuni scatti che realizzai e condivisi proprio quel giorno.

Si tratta dell’Abito Kimono firmato Roberto Capucci, anno 1985, appartenuto all’attrice che lo ha indossato in tante occasioni tra cui la Prima della Scala del 1989.

Il capo è realizzato in seta Taroni (azienda manifatturiera fondata nel 1880), ha un corpetto e una gonna nera con micro pois argento con una sopravveste a kimono a motivi floreali con bordi viola e verde smeraldo.

La sopravveste è chiusa sul retro da un grande fiocco e all’abito è stato abbinato un ventaglio con inserti in madreperla di ispirazione orientale.

L’abito è stato acquistato in occasione dell’asta già menzionata e poi donato da Amichæ (associazione presieduta da Laura Colnaghi Calissoni, imprenditrice al vertice del gruppo tessile Carvico) a Palazzo Morando con una doppia valenza e volontà.

Da una parte, c’è stato il desiderio di accrescere la collezione di abiti del XX secolo del Museo con un nome del calibro di Roberto Capucci e, dall’altra, l’idea di offrire una testimonianza della vita, dell’arte e della visione della Cortese, visto che i meravigliosi abiti-scultura del celebre stilista l’hanno accompagnata nelle serate più eleganti così come nella vita di tutti i giorni.

Basandoci su questo legame tra abiti e pensieri, Elisabetta e io ci siamo interrogate su come si possa costruire un ponte tra la Cortese e i giovani, passando proprio attraverso la moda e sfatando anche una falsa diceria: non è affatto vero ciò che si sostiene spesso, ovvero che i ragazzi nutrano disinteresse verso la storia.

Non sono interessati alla storia se rappresenta una sterile successione di date, dati e nomi, ma se si riesce a farla vivere, a darle un senso, a contestualizzarla e ad attualizzarla rapportandola al presente, i ragazzi sono invece molto interessati.

E questo vale in particolare per la storia del costume e della moda, posso testimoniarlo in prima persona grazie al mio lavoro, poiché i ragazzi ben comprendono che decifrare il linguaggio della moda aiuta a sapere da dove arrivano capi, stili, tendenze e dunque aiuta a leggere e a interpretare i segnali che ne derivano.

Ho usato non a caso linguaggio perché la moda è questo, è un linguaggio che non ha bisogno di parole ma che ha un suo alfabeto e offre, appunto, dei segnali.

Valentina Cortese sapeva padroneggiare questo alfabeto alla perfezione, per propria inclinazione personale e per il suo straordinario talento di interprete che passava anche da ciò che indossava: ciò che indossiamo parla di noi e per noi e dunque il guardaroba della Cortese ci racconta tanto di lei e della sua visione.

Alcune persone sono capaci di superare il tempo e di valicare i confini generazionali e ci sono state persone che hanno saputo anticipare concetti oggi ampiamente diffusi e condivisi: come ho già scritto, Valentina Cortese è un esempio di questa attitudine perché viveva la moda in una maniera che risulta – a mio avviso – estremamente contemporanea.

Penso, per esempio, al rapporto della Cortese con i colori e alla capacità di usarli per definire una propria identità visiva.

Penso al viola, contenuto anche nell’abito Capucci che ho appena citato, un colore spesso osteggiato e che lei invece amava e indossava superando qualsiasi stereotipo. E a proposito dei significati e delle superstizioni attorno al colore viola, durante il talk Il guardaroba disperso ho condiviso alcuni aneddoti che avevo già narrato qui nel blog.

Penso anche a un uso sostenibile dei capi inteso come utilizzo prolungato nel tempo, lontano da una visione consumistica usa e getta, fatto quando il termine sostenibilità non era certo applicato alla moda né si usavano slogan come l’attualissimo «reuse and recycle».

In tal senso, oltre agli abiti di Capucci e di Maurizio Galante da lei amati e indossati in molteplici occasioni (talvolta tra l’altro creati o modificati appositamente per lei in accordo con gli stilisti stessi), ad attirare la mia attenzione è stato anche uno scialle appartenuto a Carla Erba e che ha accompagnato a lungo la Cortese.

Carla Erba (1880 – 1939) era la nipote dell’industriale Carlo Erba, fondatore dell’omonima azienda farmaceutica: era andata in sposa giovanissima a Don Giuseppe Visconti di Modrone (1879 – 1941), figura di spicco della buona società del tempo, realizzatore del borgo neo-medioevale di Grazzano, nel Piacentino, e fondatore dell’azienda di profumi Gi. Vi. Emme.

Fra i sette figli nati dal matrimonio tra Donna Carla e il duca Giuseppe ci furono Luchino (1906 – 1976), il grande regista cinematografico, e la sorella Ida che fu a sua volta la madre del fotografo Giovanni Gastel (1955 – 2021).

Valentina Cortese entrò in possesso di uno scialle appartenuto a Carla Erba e lo usò spesso, incluso quando incontrò Gastel per uno shooting e portò con sé lo scialle in segno di omaggio verso la nonna del fotografo.

Ecco cosa intendo quando affermo che la Cortese sapeva padroneggiare la moda e il suo linguaggio; lo stesso scialle fu, nel contempo, avvistato proprio da Elisabetta Invernici in casa dell’attrice, usato per coprire un piccolo mobile…

Insomma, riutilizzo e riciclo a 360°, letteralmente… ah, sorprendente Valentina Cortese!

Tornando infine al concetto di guardaroba disperso…

Non sono esperta di questioni legali ma vorrei dire perché, secondo me, sarebbe stato importante perseguire la salvaguardia museale del guardaroba di Valentina Cortese, nel suo complesso e senza dispersione tra collezionisti privati, e lo faccio attraverso un paragone.

Sono un’amante della moda, una cultrice del bello e una collezionista di capi e accessori, ma non sono un personaggio pubblico: i miei eredi potranno conservare i pezzi che ho raccolto nel tempo per motivi puramente affettivi e sentimentali oppure potranno decidere di venderli secondo il loro valore di mercato ma, in ogni caso, il mio guardaroba non ha e non avrà mai un valore documentale di universale interesse.

La Cortese è stata, al contrario, un personaggio pubblico e fa parte del patrimonio culturale del nostro Paese: i suoi capi, soprattutto quelli presenti in fotografie e filmati, fanno a mio avviso parte della storia del costume.

Mi permetto pertanto di chiedermi – e chiedervi: se oggi quelle fotografie e filmati sono giustamente considerati importanti e da tutelare, non dovrebbero esserlo altrettanto i capi che vi sono immortalati in quanto vanno a completare e ad affiancare il valore documentale?

Lascio a ciascuno la libertà di trovare la propria risposta.

Emanuela Pirré

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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