MFW: empatia (poca), metatarsi malconci e tanta bellezza, per fortuna!
Adoro girare la mia città – Milano – a piedi, anche quando si tratta di fare molti chilometri.
Trovo che, se il clima lo consente, muoversi a piedi sia il miglior modo per conoscere il luogo in cui si vive, senza contare i notevoli benefici per salute e spirito.
Datemi un paio di scarpe comode e per me camminare non solo non è un problema, ma è invece una gioia: in questi giorni, poi, Milano gode di un clima perfetto, né caldo né freddo, quel tempo che vorrei durasse tutto l’anno.
Dovete però sapere che mercoledì scorso, primo giorno di MFW (alias Milano Fashion Week alias Milano Moda Donna alias Settimana della Moda di Milano), ho sbagliato la fondamentale scelta delle scarpe.
Ho indossato un modello che di solito è piuttosto comodo, con una leggera zeppa interna: non avevo però immaginato di percorrere quasi 15 chilometri a piedi. Posso quantificarli con tanta precisione perché ho condiviso la giornata con un caro amico (che si chiama Andrea Tisci) il quale aveva un contapassi.
Ecco, diciamo che 15 chilometri a piedi rendono scomoda qualsiasi zeppa non dotata di plateau anteriore, come è il caso di quelle mie scarpe. E, tra l’altro, la cosa peggiore non è nemmeno il fatto di camminare, bensì quello di fare lunghe soste in piedi, fermi sul posto, esattamente come accade durante la MFW per sfilate, presentazioni, incontri ed eventi, con tutto il peso del corpo che grava pericolosamente su metatarso e tallone.
Risultato: mercoledì sera quasi piangevo per il dolore. E per la rabbia, perché ho una certa esperienza e, in realtà, non avrei dovuto farmi fregare come una principiante alle prime armi.
Di conseguenza, giovedì mattina, ho optato per un paio di comodi anfibi: avevo ancora i piedi doloranti, lo giuro, ma il metatarso, almeno, ha ringraziato.
E, comunque, non ho affatto rinunciato a camminare, anzi.
A un certo punto della giornata, però, ho avuto la malaugurata idea di prendere il filobus per recarmi da una sfilata a una presentazione: ero di corsa e tra i due luoghi c’era una certa distanza.
Direte voi: perché, allora, scrivo di aver avuto un’idea malaugurata?
Perché il filobus procedeva un po’ a fatica per via del traffico nonché di alcuni cantieri dovuti a diversi lavori in corso: le fermate erano piene di gente in attesa, la vettura era colma e molti erano spazientiti.
Tant’è che una donna ha chiesto al conducente il motivo di tanta confusione e lui le ha risposto “C’è la Fashion Week, signora”.
E lei, di rimando: “Ah, ecco! Vede, se avessero invece qualcosa di serio da fare”.
Chi legge il blog abitualmente sa quanto io detesti i cliché di ogni tipo, ordine e grado e questa illuminata sentenza è proprio questo, un ottimo (anzi, pessimo) esempio di cliché.
E mi è davvero insopportabile, forse anche perché mi tocca in prima persona, lo ammetto.
Dunque, vorrei dire alcune cosette.
Primo: il caos non era dovuto solo alla MFW, mio caro conducente e mia cara signora, ma anche e in buona misura ai lavori in corso.
Occorrerebbe che chi di dovere fosse capace di gestire meglio la viabilità di una metropoli come Milano; occorrerebbe pensare con maggiore attenzione a cosa fare in giorni di traffico straordinario e conseguente forte congestione.
Occorrerebbe pensare a misure che evitino di fare infuriare tutti quanti e che evitino di far tirare fuori i soliti luoghi comuni.
Secondo: la moda è un lavoro.
Per qualcuno è un passatempo, certo, ma checché si faccia fatica a crederlo, per molti è un lavoro come un altro, esattamente come fare il panettiere, l’avvocato, l’impiegato in banca, il vigile urbano e qualsiasi altro mestiere vi venga in mente.
E credo io non debba citare e / o specificare quante decine di professioni e sfumature esistano nella moda, una delle voci più importanti della bilancia commerciale italiana, una voce che crea impiego e che, di conseguenza, contribuisce a far girare la nostra (sofferente) economia.
Terzo: non è che il caos faccia piacere a chi si occupa di moda e gira per la MFW.
Non siamo certo noi che lo vogliamo esattamente come non è contento chi al mattino deve accompagnare i figli a scuola e viene accusato di creare traffico.
Lo ripeto, forse la colpa è di chi non sa gestire le città.
E tra l’altro, proprio quella mattina, per raggiungere la prima sfilata che avevo in agenda, mi ero fatta a piedi un’iniziale dose di chilometri, proprio per il traffico e proprio nel timore di arrivare tardi, zitta zitta e con il sorriso sulle labbra nonostante i piedi indolenziti.
Dunque, il traffico danneggia anche la moda e chi non ha “qualcosa di serio da fare”, per dirlo con le parole di quella gentile signora.
Quarto: non mi risulta che, qualsiasi cosa o mestiere si faccia nella vita, si vada in giro nudi, dunque – alla fine – la moda serve a tutti, in un modo o nell’altro, e riguarda tutti, ahimè, non solo quelli che non hanno “qualcosa di serio da fare”.
Sapete, ogni volta in cui sento il noiosissimo cliché che colloca agli antipodi moda e serietà mi viene in mente il film Il Diavolo veste Prada e la scena in cui Miranda Priestly dà una lezione alla sua neo assistente Andy Sachs la quale non si cura minimamente di celare il disinteresse (nonché una punta di disprezzo) verso l’ambiente nel quale è entrata e che le ha dato un lavoro.
Se volete, parlo in dettaglio della cosa qui, ma in pratica il succo è che la dispotica direttrice spiega alla ragazza come perfino chi si crede lontano anni luce dalla moda difficilmente ne è invece totalmente estraneo. Perché la moda è attorno a noi, accompagna la società e non riguarda solo gli abiti che indossiamo.
E così arriviamo al quinto punto, forse quello che mi sta più a cuore.
La moda è fatta non solo dai privilegiati (e lo dico senza disprezzo né invidia, lo giuro, ma con ammirazione) che magari si muovono in auto privata (generando traffico… ma guarda che sciagurati!), ma anche (e soprattutto) dalla manovalanza nella quale mi includo – e siamo la maggioranza, occorre dirlo.
Una maggioranza fatta di quelli che macinano chilometri a piedi.
Di quelli che si svegliano all’alba per tornare a casa solo a tarda sera.
Di quelli che alla sera, terminati gli appuntamenti di lavoro, non vanno ai party perché sono stravolti dalla stanchezza e perché magari non avrebbero nemmeno i mezzi pubblici per far ritorno a casa (e farebbero fatica a pagarsi un taxi come alternativa, anche perché le camminate si fanno volentieri e per piacere, come ho raccontato, ma a volte anche per risparmiare i soldi del biglietto del tram… figuriamoci il taxi).
Di quelli che dunque non vivono il lato più glamour e frivolo della moda. E non dico che chi invece lo fa faccia male e abbia torto, anzi, al contrario (fanno benissimo!); ma c’è anche chi – come me – preferisce tornare a casa da un marito o da un compagno o dai figli. C’è chi ha il cane da portare a fare la passeggiata (Andrea, il mio caro amico del contapassi).
E tutto questo perché siamo persone normali, non marziani.
Una maggioranza fatta di quelli che, oltre che per impegni o questioni familiari, preferiscono tornare a casa anche perché devono scremare e preparare decine e decine di foto, devono finire pezzi da consegnare e da pubblicare in gran fretta.
Di quelli che vanno avanti a oltranza e che spengono il pc alle due o alle tre di notte (anche alle quattro, a volte) e puntano la sveglia alle sei, magari proprio per accompagnare i figli a scuola, esattamente come qualsiasi altro genitore lavoratore.
Di quelli che spesso fanno tutto ciò nel precariato, senza stipendio sicuro né posto fisso e per cifre che difficilmente (anzi, praticamente mai) sono elevate.
Non sto piagnucolando, sia ben chiaro: non ne ho alcuna intenzione.
Non sto dicendo che siamo dei santi o dei martiri o delle vittime o che salviamo vite o che cambiamo il mondo o che portiamo la pace.
Al limite (ma proprio al limite) portiamo un po’ di allegria, bellezza e colore (in tutti i sensi), cose che comunque rendono (o possono rendere) la vita un po’ più piacevole.
Non sto nemmeno insinuando che qualcuno ci obblighi, per carità, nessuno ci punta una pistola alla tempia: sono scelte così come ognuno di noi ne fa, nel lavoro e nel privato.
Sto solo dicendo che non è esattamente vero che siamo gente che non “ha qualcosa di serio da fare”.
Sto dicendo che anche noi che lavoriamo nella moda facciamo un lavoro onesto, come tutti; che siamo persone normali, come tutti; che abbiamo problemi, come tutti e come ho già scritto.
Sto dicendo che non viviamo (solo) di polverina glitterata (giusto per restare in tema glittering woman) nonostante cerchiamo sempre di trovare, vedere e trasmettere quel luccichio che rende – appunto – più bella la vita.
Aggiungo che tutto ciò che ho elencato (e che non è esaustivo) si riesce a sopportare solo grazie a una enorme passione, a una forte determinazione e a uno sconfinato desiderio di condivisione: ecco, in questo siamo privilegiati, forse, nel fare qualcosa che amiamo.
Ma esiste un prezzo da pagare e spesso è piuttosto salato, perché non esistono sogni gratuiti. Sognare è gratuito, realizzare un sogno no.
Oltre al sonno perso, ai pasti saltati (non per dieta ma per i ritmi) e ai piedi doloranti, paghiamo il prezzo soprattutto con l’assenza di una tranquilla routine e con la testa eternamente piena di sogni che difficilmente riusciremo a coronare.
Perché viviamo di bellezza, ogni giorno, ma poi come quasi tutti abbiamo il mutuo nonché troppe bollette da pagare e allora ci vestiamo anche noi grazie alle catene di fast fashion mescolando, magari, qualche pezzo pregiato scovato a una svendita o in un mercatino vintage.
E se non ci fossero passione, forza, determinazione, forse davvero andremmo a fare altro, non qualcosa di più serio, come dice qualcuno, ma probabilmente qualcosa di più tranquillo.
E, possibilmente, meglio retribuito – in termini monetari, intendo.
Peccato che la moda (il blog, il lavoro di redattrice, la cattedra in Accademia del Lusso) sia un pezzo importante del mio cuore nonché della mia vita. Cosa farei senza?
Scusate il lungo sproloquio, amici miei, ma quel commento così sprezzante, superficiale e irrispettoso, quel fare di tutta l’erba un fascio con noncuranza, quel luogo comune fastidioso… insomma, tutto ciò mi ha fatto rimanere davvero tanto male.
E mi ha dato più dolore di un metatarso malconcio.
Eppure, terminato di blaterare, sono felice di condividere con tutti voi un piccolo assaggio delle migliori scoperte fatte durante la MFW. Le mie scelte, insomma.
Seguiranno tanti post dettagliati dedicati a ogni brand (e con foto di qualità migliore provenienti dagli uffici stampa – grazie ♥), ma tenevo intanto a dare qualche anticipazione (attraverso i miei occhi perennemente… in corsa quanto lo sono stati i piedi).
Perché nonostante certi sciocchi cliché e nonostante i piedi che mi fanno male ancora oggi (lo giuro)… la moda, per me, resta un sogno. Un meraviglioso sogno. E desidero solo condividerlo.
L’unico rammarico? Non aver avuto più tempo da dedicare a ulteriori scoperte.
Manu
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Manu
Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.
Glittering comments
carissima manu ho letto tutto d’un fiato il tuo strepitoso articolo e mi sono ritrovata con te sul filobus a dover ascoltare le sciocchezze stereotipate dette dalla signora. Sinceramente non ho resistito e nonostante tu mi tenessi per la manica dicendomi in silenzio di non reagire , non ce l’ho fatta più: le sono saltata al collo facendole cadere il gran foulard da divano con cui si abbelliva e rompendole inavvertitamente la collanona di finte perle che svelte svelte finalmente liberate da quel filo odioso che le teneva unite contro la propria volontà ( molte fra loro avevano anche litigato) sono ruzzolate via …fa le gambe degli altri viaggiatori. Si è scatenato un parapiglia e tu sei pure scoppiata a ridere mentre i tuoi piedi si rifiutavano di muoversi nonostante una folla minacciosa incombesse su di noi. Per fortuna siamo riuscite a scendere al volo…nel senso che siamo volate giù dal finestrino e tu mi hai portato ad innamorarmi delle meraviglie e delle novità che riesci sempre a scovare. L’interazione Arte/Moda sempre mi ha interessato ed ciò che tu mi hai fatto “vedere” qui sul tuo blog attraverso il reportage fotografico. E mi consola tanto sapere che c’è chi come me ancora ci crede tanto nonostante tutto. Hai ragione a sottolineare che questo è lavoro …ma forse c’è sempre invidia per chi con i metatarsi doloranti, il cane da portare a passeggio, i figli da accompagnare a scuola, la cena da preparare e il frigo vuoto, i panni da stirare…continua lo stesso ad amare ciò che fa. Non sono molti coloro che possono dichiarare di svolgere il proprio lavoro amandolo. Noi abbiamo questo privilegio….Grandissima manu la tua foto di spalle con le code ben stese è un capolavoro…bacionissimi.
p.s. Il 19 novembre alle 17.00 sarò a Milano con le altre autrici di “Fashion Intelligence” presso la Fondazione Ferré in via Tortona . Siamo state invitate per presentare il nostro saggio. E’ l’occasione per vederci finalmente ? Ripartirò la domenica sera…
Oh, Florisa cara,
Ti ho già detto in altre occasioni – vero? – quanto tu sia capace di creare scenari che appaiono così vividi e reali? E io ammiro e amo tutto ciò!
Già, avrei avuto bisogno di te su quel filobus. Anche perché, nonostante fossi livida di rabbia, ho taciuto sebbene le parole fossero lì, sulla punta della lingua, e premessero per uscire.
Ho preferito stare zitta e ora un po’ me ne pento. Professo con convinzione che occorra difendere le proprie idee, sempre, ma in quel caso non l’ho fatto. Credo di aver percepito che non fosse né il momento né il luogo adatto, eppure è stata un’occasione persa e non perché io abbia velleità di indottrinare il mondo, per carità, ma perché offrire un altro punto di vista o uno spunto di riflessione può essere utile.
A ogni modo: asciugate le lacrime (per le risate!) e ringraziandoti con gratitudine per il tuo apprezzamento verso il mio lavoro, prendo nota dell’enorme, fantastica novità.
Vuoi dire che – finalmente! – possiamo avere l’opportunità di conoscerci di persona, tra l’altro in un’occasione meravigliosamente bella? Il mio cuore trabocca di felicità!
Guarda che l’ho già messo in agenda, dunque aggiorniamoci e accordiamoci.
Ti abbraccio forte,
Manu
Emanuela cara, posso solo dire che i superficiali sono loro e non certo noi e che hai ragione infinitamente quando dici che i sogni non sono mai gratis!!
Ma noi non molliamo, mai, e sicuramente non lo faremo per questi due motivi!
lov u
Al
Cara Annalaura,
Per prima cosa lasciami dire che è un gran piacere poterti accogliere qui, nel mio piccolo spazio web 🙂
E poi ti dico che hai proprio ragione: noi non molliamo.
Anzi, più sento pronunciare luoghi comuni e maggiormente mi incaponisco: smontare i cliché è diventato uno dei miei… sport preferiti, ormai 😉
Ti abbraccio e ti ringrazio infinitamente,
Manu