Il nuovo vocabolario della moda italiana e la contemporaneità

Il talento, il made in Italy e uno dei musei più interessanti di Milano: prendete questi tre elementi, metteteli insieme e mi fate felice. È ciò che sta succedendo alla Triennale che ospita una mostra unica nel suo genere, nata dal desiderio di celebrare l’Italia della moda contemporanea.

La mostra si chiama Il nuovo vocabolario della moda italiana e manda in scena – fino al 6 marzo 2016 – marchi e creativi che negli ultimi 20 anni hanno rinnovato e recuperato il DNA non solo culturale ma anche tecnico della nostra migliore tradizione, riuscendo a riscriverlo in un linguaggio originale e – appunto – estremamente contemporaneo.

Il nuovo vocabolario della moda italiana analizza la natura più recente della moda attraverso il lavoro dei suoi protagonisti: si va dal prêt-à-porter allo streetwear, dalle calzature alle borse, dai gioielli ai cappelli per scrivere un inedito vocabolario di stile nonché di laboriosità e produttività perché – non dimentichiamolo mai – la moda produce reddito e dà lavoro.

Il vocabolario racconta un tratto di storia del made in Italy, precisamente a partire dal 1998: perché proprio il 1998? Perché è l’anno che, convenzionalmente, segna il passaggio definitivo alle nuove forme della comunicazione, quelle digitali. Leggi tutto

Compleanno, stavolta non ti temo perché penso al kintsugi

Questo è il terzo compleanno che festeggio qui sul blog.
Festeggio si fa per dire: in realtà, in occasione del mio compleanno, avete sempre letto riflessioni un po’ malinconiche.
Quest’anno, però, si cambia regime: desidero tornare a festeggiare davvero il mio compleanno e non perché la mia vita sia diventata perfetta tutto d’un tratto.

Ho iniziato a pensarci una sera, seguendo un dibattito in televisione: una giovane donna affermava che se c’è una cosa che non ha mai aiutato nessuno a ottenere qualcosa è il fatto di piangersi addosso.
Non importa di cosa si dibattesse nello specifico e non importa nemmeno che, a parte questa (inconfutabile) affermazione, la giovane non avesse in verità particolarmente ragione e che fosse anche un po’ supponente e antipatica: importa che quelle parole mi hanno colpita con forza, come se fossero rivolte proprio a me.
Non sono abituata a piangermi addosso, questo no, ma mi capita di sfogarmi su Facebook e in alcuni post qui sul blog, come quelli del compleanno, appunto.
Ecco, ascoltando quelle parole, ho ammesso che in effetti lamentarmi non mi aveva aiutata e non mi aiuta né a ottenere ciò che voglio né a rendermi più simpatica sebbene vi prego di credermi, non è la simpatia ciò che volevo ottenere: non ho mai pensato che piagnucolare sia un modo per ottenere pacche sulle spalle tanto quanto non serve a cambiare le cose.

Ho poi riflettuto anche su altre questioni.
Il 2015 è stato un anno durissimo per tutti quanti e mi riferisco ai fatti che stanno insanguinando il mondo, non ultimi quelli di Parigi.
Non solo, la morte mi è passata accanto colpendomi molto da vicino e portandosi via Emanuele, una persona (giovanissima) alla quale ero affezionata e che desidero ricordare nuovamente proprio oggi, nel giorno del mio compleanno. Leggi tutto

Gianni Chiarini mette il cuore in #GumForLove

Io non sono una nativa digitale.
Ho usato i telefoni col disco combinatore, il mitico Siemens S62 detto Bigrigio per le sue due tonalità di grigio. E la compagnia telefonica era la SIP. Ho usato anche le cabine telefoniche – parecchio.
Quando ho iniziato a lavorare, avevo la macchina da scrivere elettronica: all’arrivo del pc, guardando Word ed Excel per la prima volta, ricordo di aver pensato che non avrei mai imparato a usarli.
Il mio amore per la scrittura nonché l’attrazione verso il giornalismo è iniziato da bambina, quando mio papà mi ha permesso di usare la sua splendida Olivetti Lettera 32, macchina meccanica bellissima, un vero gioiellino, compatta e funzionale. Oggi è considerata un oggetto di design.
Quando frequentavo scuole elementari e medie, aspettavo con ansia le cartoline, soprattutto d’estate, e a mia volta ne spedivo tante. Alle elementari, avevo una pen friend in Francia, ad Annecy.
Il grande amore della mia adolescenza abitava a Genova: c’eravamo conosciuti durante uno stage estivo in Inghilterra, a Canterbury, e, tornati in Italia, abbiamo passato mesi a telefonarci e a mandarci lettere. Non avevamo i cellulari e la SIP avrebbe dovuto farci un monumento per quante monete e schede abbiamo speso in quelle benedette cabine telefoniche citate qui sopra… Leggi tutto

Gaia Petrizzi va a Parigi (e io riparto da e con lei)

Non è facile riannodare i fili recisi dall’orrore.
Non è facile ripartire e per giorni ho continuato a chiedermi da dove e con cosa, perché nulla mi sembrava adatto.
Non è facile tornare a parlare di cose belle e leggiadre – nonostante sia un lavoro che faccio con passione: mi sono chiesta seriamente se e quanto avesse un senso.

Dopo molti dubbi, sono infine arrivata a prendere una decisione.
Sì, il senso ce l’ha, visto che opero con grande sincerità e mettendoci tutto il cuore.
Ce l’ha, visto che credo profondamente nella cultura e nella bellezza in tutte le loro forme ed espressioni e visto che credo che esse siano libertà.
Ce l’ha, visto che credo con tutta me stessa che non arrendersi e non farsi cambiare sia la risposta migliore a chi vuole toglierci esattamente tutto ciò, a chi vuole toglierci aria, libertà, gioia di vivere.

Eppure, nonostante questa decisione alla quale sono infine giunta, non riuscivo a scegliere l’argomento col quale ripartire: poi, d’un tratto, la nebbia si è diradata e le idee si sono fatte chiare.

Di Gaia Petrizzi e del suo brand Tupi Tupi avevo parlato diverso tempo fa, più o meno agli inizi dell’avventura di A glittering woman: torno oggi a parlarne con orgoglio per annunciarvi un’esposizione dei suoi meravigliosi gioielli d’arte a Parigi.
Qualcuno potrà pensare: sei pazza, in un momento simile non solo ci parli di gioielli ma per giunta anche di un’esposizione a Parigi?
Ebbene sì, amici miei, è così, perché Parigi è vita, è bellezza, è cultura, è arte, è movimento vivace, è fermento intellettuale: è stata ferita a morte, è vero, ma si rialzerà, ne sono certa, e il modo migliore per aiutarla – a mio avviso – è credere che possa farlo, che possa rialzarsi.

La mostra di Gaia a Parigi era stata fissata prima dell’orrore e continua a essere confermata: considero questo fatto come una vittoria dei valori nei quali credo con convinzione.
E se prima della notte di sangue del 13 novembre avevo già intenzione di parlare di questo evento che si svolgerà nella capitale francese, oggi mi sembra quasi un’esigenza nonché la scelta migliore – forse l’unica possibile – per ripartire qui sul blog, per dare il mio contributo e per dare un messaggio forte: la società civile non si piega né si ferma, né dopo i fatti parigini né dopo i terribili accadimenti in altri luoghi. Leggi tutto

#PrayForParis, #PrayForWorld

Sono colma di pensieri in ordine sparso. Spettinati, direbbe una mia cara amica.
Provo paura, orrore, sconforto, angoscia, confusione, smarrimento, dolore, preoccupazione, inquietudine.
Provo altri sentimenti densi e vischiosi ai quali non riesco nemmeno a dare un nome.
Da venerdì sera ascolto le notizie in TV, leggo quelle sul web.
“Non capisco ma queste cose sono difficili da capire, fatte da esseri umani”, dice Papa Francesco in una telefonata con Tv2000: le sue parole e la sua sofferenza che si può quasi toccare mi impressionano profondamente.
“Invito tutti a superare la paura”, dice il presidente francese, François Hollande.
Leggo ovunque frasi tipo “Vedo umani ma non vedo umanità”.
Qualcuno parla di Terza Guerra Mondiale e a me torna in mente una frase di Albert Einstein: “Non so con quali armi verrà combattuta la Terza Guerra Mondiale ma la Quarta verrà combattuta con clave e pietre”. Quand’ero ragazzina, queste parole mi terrorizzavano e oggi mi fanno un effetto del tutto simile.
Credo, però, che nemmeno il grande scienziato avrebbe potuto immaginare lo scenario odierno: la guerra che in effetti sembra essere in atto non conosce un fronte. È ovunque e mina ogni nostra certezza: non esiste rifugio, non esiste luogo che possa dirsi assolutamente sicuro. Le strade sono come trincee, luoghi insospettabili come uno stadio o una sala da concerti possono diventare campi di battaglia.
Penso ai parigini che venerdì notte hanno aperto le loro case a chi non aveva modo di rientrare nella sua. Penso che, ancora una volta, hanno dimostrato di credere veramente in quel Liberté, Égalité, Fraternité nato con la Rivoluzione Francese e in seguito diventato motto della loro patria.
Su Facebook, ieri mattina, ho scritto “Svegliarsi con un unico pensiero: verificare che tutti coloro che conosco e che sono a Parigi stiano bene… Il cuore deve trovare modi per sopravvivere all’orrore…”
E anche “La bellezza salverà il mondo. Cerco di crederci anche in questo sabato di angoscia e orrore per la nuova strage di Parigi.”
Stamattina, invece, mi sono alzata avendo in testa un’immagine ben precisa della capitale francese. È la foto che vedete qui sopra, un mio scatto datato agosto 2014 e realizzato affacciandomi dalle finestre del Musée des Arts Décoratifs.
Chissà perché, tra centinaia di scatti dei miei tanti soggiorni a Parigi, ho pensato proprio a questa foto. Non so di preciso perché, ma ho voluto dare ascolto al mio subconscio scegliendo l’immagine emersa dalle nebbie dei sogni agitati di stanotte.
Sapete, quando il mondo mi fa paura, cerco rifugio nella bellezza. A qualcuno potrà sembrare stupido, ma è il mio lavoro e soprattutto è l’unico modo che conosco per portare avanti i valori di cultura, civiltà, umanità, tolleranza e libertà nei quali credo da sempre.
E forse – ripensandoci meglio – capisco perché il mio subconscio mi abbia suggerito proprio la foto qui sopra: la Tour Eiffel vista dal Musée des Arts Décoratifs diventa un simbolo, quello della bellezza e del progresso visti attraverso la prospettiva offerta dalla cultura. E la bellezza, il progresso, la cultura, la civiltà e la libertà sono le luci che ancora spero possano illuminare il buio dell’ignoranza, dell’odio, dell’oscurantismo, del sonno della ragione, della bieca disumanità.
L’odio, il sangue, la paura non devono e non possono vincere. Certo, dolore e paura sono assolutamente legittimi, oggi, e ammetto che resistere alla tentazione dell’odio non è facile, eppure credo che dovremmo farlo, dovremmo resistere.
Credo che non dovremmo abbandonarci all’odio perché sono d’accordo con una frase che ho letto: “Chi odia è già morto”.
Non ho mai preteso di possedere né di dispensare la verità anche perché credo che nessuno possegga o detenga la verità assoluta: vi sto raccontando il mio punto di vista. Questo è il mio modo di reagire. È la mia risposta. Sono i miei pensieri spettinati che ho voluto condividere con voi come se ragionassi a voce alta.
E vi dirò di più: oggi mi sento un po’ illusa se ripenso alle mie parole di speranza dello scorso gennaio dopo l’attacco a Charlie Hebdo. Ripeto di sentirmi paralizzata, piena di dubbi e di interrogativi.
Eppure, da domani, così come chiede Hollande, cercherò di superare la paura.
Raccatterò le mie poche certezze, i miei tantissimi dubbi e la mia infinita voglia di andare avanti e tornerò a sperare. A lavorare e a vivere nel modo in cui so farlo. A onorare i valori nei quali credo. Senza odio.
Credo che questa sia la risposta migliore da dare a chi vuole portare avanti e diffondere una guerra maledetta che rischia davvero di riportarci a clave e pietre.
Manu

#PrayForParis
#PrayForWorld

Unoaerre, un museo (letteralmente) d’oro

Sono fermamente convinta di un fatto: le cose più belle sono spesso quelle che non ci aspettiamo e che non programmiamo.
Lo scorso week-end, per esempio, sono stata vicino ad Arezzo insieme a Enrico, mio marito, per sostenerlo in una delle sue grandi passioni: il modellismo.
Nella bella città toscana, ho delle amiche preziose le quali, saputo del mio arrivo, si sono adoperate per farmi vivere alcune esperienze davvero deliziose. Agnese, una di loro, è stata così gentile e premurosa (leggere: fantastica) da far sì che potessimo visitare il museo di UNOAERRE, importante azienda che non ha bisogno di molte presentazioni.
Non solo: la visita è avvenuta sotto la guida di Giuliano Centrodi, direttore, curatore e conservatore del museo nonché modellista storico di UNOAERRE.
Come avrei potuto immaginare che, un fine settimana pensato ad hoc per la mia dolce metà, si sarebbe trasformato in qualcosa di interessante per le mie attività e che sarei entrata in un luogo importantissimo per la tradizione orafa? Ecco perché dico che le cose inaspettate sono le più belle.
Arezzo è uno dei poli italiani dell’oro insieme a Valenza e Vicenza: la storia di UNOAERRE inizia il lontano 15 marzo 1926 grazie a Carlo Zucchi e Leopoldo Gori, i due fondatori dell’azienda.
Forse non tutti sanno che, fino a inizio ‘900, in Italia i gioielli erano punzonati unicamente per attestare la veridicità del metallo, ma non recavano il marchio di chi li aveva prodotti: il vero marchio orafo che garantisce il titolo e certifica anche il produttore nacque come idea durante il ventennio fascista.
Perché vi sto raccontando questa cosa? Perché è strettamente legata alla storia e al nome dell’azienda: il 2 aprile del 1935, la Gori & Zucchi ricevette infatti il primo marchio della provincia di Arezzo, ovvero 1AR. Tale marchio scritto per esteso (UNOAERRE) è diventato a tutti gli effetti il nome alla società.
In quasi 90 anni, varie generazioni di orafi, tecnici, maestri e artisti hanno costruito, sviluppato, consolidato e fatto conoscere una realtà economica ancora oggi unica al mondo: l’azienda arrivò ad avere più di 1500 dipendenti negli anni ’60 e, proprio tra gli anni ’50 – ’60, le fu riconosciuto il ruolo di zecca e dunque fu autorizzata a battere valuta in corso legale. Lo fece per più di 90 paesi tra i quali il Regno Unito.
Non c’è praticamente paese dove non sia giunto un gioiello UNOAERRE e oggi l’azienda vanta una distribuzione in oltre 40 stati con filiali dirette in Francia e Giappone: in Italia è il marchio leader nel mercato delle fedi nuziali aggiudicandosi una fetta del 70%.
UNOAERRE è dunque una nostra gloria della quale essere giustamente orgogliosi: nel 1988, l’azienda ha inaugurato il suo museo fondato con l’intento di non disperdere la memoria storica e di offrire un percorso espositivo che parte dalla cosiddetta archeologia industriale (i macchinari d’epoca).
La collezione comprende oltre 2000 opere tra disegni originali, pezzi di oreficeria, gioielli e diversi pezzi unici: sono per esempio rappresentati gli anni ’20 (con gli ultimi bagliori della Belle Époque e dello stile ghirlanda tipico del periodo), l’Art Déco col suo stile dal sapore geometrico e i gioielli autarchici degli anni ’30, fatti in argento, rame e vetri colorati. Il tutto narra con efficacia una storia che è ancora viva ed attuale grazie ad un continuo aggiornamento con i gioielli più rappresentativi delle collezioni contemporanee: per questo il museo può essere considerato come un patrimonio presente e futuro di arte e cultura orafa.
A me è piaciuto proprio questo, ovvero il fatto che l’esposizione appaia straordinariamente viva: sicuramente il merito va anche a Giuliano Centrodi e alla sua straordinaria conoscenza e memoria. Pensate che è entrato in azienda nel 1963 quando era un giovane e promettente studente di soli 18 anni: oltre ad essere stato direttore artistico di UNOAERRE e ad essere oggi curatore del museo, ha insegnato presso l’Università di Firenze.
Sono onoratissima di averlo conosciuto e di aver ascoltato un pezzo di storia raccontato con vigore, eleganza e passione.
Tra i tantissimi pezzi del museo, sono rimasta affascinata proprio dai gioielli autarchici di epoca mussoliniana e dalle testimonianze della campagna detta Oro alla patria (il dono degli oggetti in oro e soprattutto delle fedi matrimoniali sostituite da esemplari in ferro che venivano date a coloro i quali facevano la donazione, uno dei momenti più impressionanti del consenso al regime fascista favorito da una martellante opera di propaganda): ho amato anche i bellissimi pezzi del grande Giò Pomodoro, autentiche sculture da indossare.
Se amate la bellezza, il saper fare, la capacità, la fantasia, la creatività, il made in Italy e se amate la storia, vi raccomando una visita a questo bellissimo museo che è un autentico gioiello. Letteralmente.

Manu

Il museo (situato presso la sede dell’azienda in Località San Zeno Strada E al civico 5, Arezzo) è visitabile su prenotazione, telefono: 0575 9251, e-mail info@unoaerre.it
Qui trovate la pagina Facebook di UNOAERRE

Vi lascio con la gallery delle foto che ho scattato in occasione della visita di sabato scorso. Le ultime due sono opera di Grazia, una delle mie amiche: la prima mi ritrae con Giuliano Centrodi, mentre la seconda ritrae noi tre, Grazia, la sottoscritta e Agnese. Un grazie speciale ad Agnese e Grazia

Patty Toy Braintropy, la moda cambia (e ci cambia)

Vi confesso una cosa: faccio fatica a staccarmi da ciò che amo. Persone, progetti, oggetti.

Mi piace mantenere un contatto con tutto ciò in cui credo, costruire un discorso che posso estendere nel tempo esattamente come farei srotolando un gomitolo di filo rosso. Non mi piace scrivere un post e poi dimenticarmene, archiviarlo come cosa fatta: se i protagonisti di un progetto del quale mi sono occupata portano avanti le premesse che mi hanno conquistata, mi piace continuare a seguirli aggiornando voi.

Ricordo benissimo l’entusiasmo col quale ho raccontato di Braintropy per la prima volta, a luglio dello scorso anno, profondamente colpita da un concetto a mio avviso molto interessante: la modularità.

Siamo nel mondo delle borse e parliamo dell’amore che questo accessorio scatena: tutte quante ne andiamo matte e tutte quante amiamo possederne tante. Trovare una donna che non ama le borse è quasi come trovare una persona che non ama il cioccolato. E l’interesse è in crescita anche in moltissimi uomini.

Eppure, c’è un fatto che ci frena dalla voglia di cambiare borsa ogni giorno, ovvero dover trasferire il contenuto, perché tale trasferimento equivale spesso a un vero e proprio trasloco: è infatti inutile negare che noi donne facciamo entrare un po’ di tutto in quelle benedette borse, giusto per essere preparate a qualsiasi evenienza, dal ritocco veloce del trucco alla possibile fine del mondo.

Braintropy nasce pensando a tutto ciò: forte di un sapiente incontro tra know how toscano dalle radici antiche e continua ricerca di nuove soluzioni in termini di forme e materiali, ha coltivato con successo il concetto di modularità del quale accennavo, caratteristica che dà una risposta efficace e definitiva alla questione del cambio. Sì, perché grazie al brand è la borsa a cambiare, anzi, a trasformarsi. Leggi tutto

Nel giardino dei ciliegi giapponesi con Queenie Rosita Law

A volte, ho l’impressione che il tempo sia un despota capriccioso: si diverte a tiranneggiarci senza alcuna pietà e rende i nostri impegni simili a macigni pronti a schiacciarci.

Il lavoro, per esempio, occupa gran parte della nostra esistenza, senza far distinzioni o preferenze tra lavoratori dipendenti e freelance: ora che ho provato entrambe le condizioni, posso dirvi che non cambia granché. Molto spesso, da freelance si finisce semplicemente con avere molti datori di lavoro al posto di uno solo.

Terminata la parentesi lavoro, iniziano poi le incombenze familiari, le commissioni da sbrigare, le faccende domestiche.

E, infine, viene il tempo per noi stessi: sì, l’ho messo appositamente per ultimo perché è quello che facciamo più fatica a trovare. Troviamo tempo per tutto, ma non per noi stessi né per concederci un po’ di tregua.

Siamo buffi, vero? Per questo sostengo che – spesso – siamo i peggiori nemici di noi stessi (e io sono una campionessa, potrei vincere una medaglia se esistesse una disciplina olimpica).

Questo piccolo discorso è per dirvi che tutto ciò che parla di tempo (e non mi riferisco al meteo) esercita un’indicibile attrazione sulla sottoscritta: sono affascinata soprattutto quando a raccontare le sue sfaccettature sono artisti che ne hanno fatto il fulcro dei loro studi.

Poco tempo fa, ho parlato di un interessante progetto firmato dal fotografo Davide Cappelletti e incentrato sullo scorrere del tempo in un giardino; una persona che stimo mi ha ora sottoposto un altro progetto molto intrigante intitolato The invisible gap. Leggi tutto

Tomaso Anfossi e Francesco Ferrari, anticipi di primavera

Sono conscia di quale sia l’opinione che va per la maggiore: la moda non è considerata arte.
E sapete una cosa? In fondo sono d’accordo, la maggior parte della moda che vedo attorno a noi non è affatto arte.
Oggi più che mai, la moda è business e produce lavoro in maniera efficace, spesso molto più di quanto facciano altri settori. La moda è questo, lo ammetto, dunque spesso non può essere arte.
Eppure, quando ho l’opportunità di ammirare il lavoro di certi giovani che con autentica passione continuano a far vivere le maestranze e le capacità più nobili riuscendo a contaminare la moda con ispirazioni tratte da altri mondi… beh, allora penso che esiste una forma di moda che si avvicina all’arte in quanto è capace di essere veicolo di espressione e comunicazione.
A tal proposito, torno a citare Wikipedia e una definizione che ho già usato in una precedente occasione e che mi è molto cara: “L’arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza. Nella sua accezione odierna, l’arte è strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni e messaggi soggettivi. Tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione.”
Dunque, visto che la moda è una forma di creatività e di espressione estetica, visto che poggia su accorgimenti tecnici, visto che comporta abilità innate o acquisite derivanti dallo studio e dall’esperienza e visto che sa trasmettere emozioni, nessuno, mai, mi farà cambiare idea sul fatto che – in alcuni casi – possa essere una forma d’arte. Non cambierò idea fino a quando continueranno a esistere stilisti che fanno sì che io possa sostenere questa tesi.
Un esempio? Il duo CO|TE. Leggi tutto

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