MFW: empatia (poca), metatarsi malconci e tanta bellezza, per fortuna!

Adoro girare la mia città – Milano – a piedi, anche quando si tratta di fare molti chilometri.
Trovo che, se il clima lo consente, muoversi a piedi sia il miglior modo per conoscere il luogo in cui si vive, senza contare i notevoli benefici per salute e spirito.
Datemi un paio di scarpe comode e per me camminare non solo non è un problema, ma è invece una gioia: in questi giorni, poi, Milano gode di un clima perfetto, né caldo né freddo, quel tempo che vorrei durasse tutto l’anno.

Dovete però sapere che mercoledì scorso, primo giorno di MFW (alias Milano Fashion Week alias Milano Moda Donna alias Settimana della Moda di Milano), ho sbagliato la fondamentale scelta delle scarpe.
Ho indossato un modello che di solito è piuttosto comodo, con una leggera zeppa interna: non avevo però immaginato di percorrere quasi 15 chilometri a piedi. Posso quantificarli con tanta precisione perché ho condiviso la giornata con un caro amico (che si chiama Andrea Tisci) il quale aveva un contapassi.
Ecco, diciamo che 15 chilometri a piedi rendono scomoda qualsiasi zeppa non dotata di plateau anteriore, come è il caso di quelle mie scarpe. E, tra l’altro, la cosa peggiore non è nemmeno il fatto di camminare, bensì quello di fare lunghe soste in piedi, fermi sul posto, esattamente come accade durante la MFW per sfilate, presentazioni, incontri ed eventi, con tutto il peso del corpo che grava pericolosamente su metatarso e tallone.
Risultato: mercoledì sera quasi piangevo per il dolore. E per la rabbia, perché ho una certa esperienza e, in realtà, non avrei dovuto farmi fregare come una principiante alle prime armi.

Di conseguenza, giovedì mattina, ho optato per un paio di comodi anfibi: avevo ancora i piedi doloranti, lo giuro, ma il metatarso, almeno, ha ringraziato.
E, comunque, non ho affatto rinunciato a camminare, anzi.
A un certo punto della giornata, però, ho avuto la malaugurata idea di prendere il filobus per recarmi da una sfilata a una presentazione: ero di corsa e tra i due luoghi c’era una certa distanza.
Direte voi: perché, allora, scrivo di aver avuto un’idea malaugurata?
Perché il filobus procedeva un po’ a fatica per via del traffico nonché di alcuni cantieri dovuti a diversi lavori in corso: le fermate erano piene di gente in attesa, la vettura era colma e molti erano spazientiti.
Tant’è che una donna ha chiesto al conducente il motivo di tanta confusione e lui le ha risposto “C’è la Fashion Week, signora”.
E lei, di rimando: “Ah, ecco! Vede, se avessero invece qualcosa di serio da fare”.

Chi legge il blog abitualmente sa quanto io detesti i cliché di ogni tipo, ordine e grado e questa illuminata sentenza è proprio questo, un ottimo (anzi, pessimo) esempio di cliché.
E mi è davvero insopportabile, forse anche perché mi tocca in prima persona, lo ammetto.
Dunque, vorrei dire alcune cosette. Leggi tutto

Giulia Salemi contro Giulia Marani: due approcci agli antipodi

Chissà se, leggendo il titolo di questo post, avete pensato al film Kramer contro Kramer: se è così, ne sono felice, era il mio scopo.
Desideravo evocare proprio l’atmosfera di quella pellicola che racconta di una coppia che, a seguito del divorzio, si ritrova a lottare per l’affidamento del figlioletto.
L’intento del regista è quello di sottolineare, fin dal titolo e tramite l’uso dello stesso cognome, l’aspro confronto che oppone i due coniugi.

Il mio intento è lo stesso: non vi parlerò di un matrimonio in crisi, ma di un altro confronto tra nomi.
Le due persone delle quali sto per parlarvi hanno infatti in comune il nome di battesimo, Giulia, e da esso sono unite eppur divise, come vedrete.

Giulia Salemi è una modella, lavora in televisione ed è una ex concorrente del concorso di bellezza Miss Italia; Giulia Marani è una stilista della quale ho parlato spesso.
Entrambe sono state presenti a Venezia, per la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.

Giulia Salemi ha fatto parlare di sé per aver indossato un abito che non so davvero come definire.
Potrei chiamarlo inguinale, nel senso che lasciava praticamente scoperto l’inguine eccezion fatta per una sottile striscia di stoffa. Per onore di cronaca e per amore di verità, è giusto che io nomini anche Dayane Mello, modella brasiliana che ha condiviso la passerella con la Salemi, vestita dallo stesso stilista e con un abito simile.

Giulia Marani ha invece fatto parlare del suo lavoro, vestendo due modelle con alcuni capi che rappresentano e sintetizzano il percorso che la stilista sta portando avanti da anni.

Parliamo in entrambi i casi di moda e vestiti, dunque; eppure, le due Giulia hanno affrontato la passerella (e la vita, oserei dire) in maniera diametralmente opposta, sia per quanto riguarda l’approccio sia per quanto riguarda il risultato.

E avrete già capito che uno dei due modi mi piace e l’altro no. Leggi tutto

Chloë Moretz, le azzurre del tiro con l’arco e gli orrori dei giornali

È giunto il momento che io vada in vacanza concedendomi una pausa dalla consueta routine.

Lo sento, è così, e non lo affermo guardando il calendario in questo mercoledì 10 agosto, ma piuttosto ascoltando me stessa.

Quando non ho più pazienza, quando le mie reazioni diventano (ancora) meno diplomatiche del solito, quanto non riesco più a contenere la mia impulsività, vuol dire che ho fatto il pieno e che è arrivato il momento di staccare, di cambiare orizzonti, di cercare stimoli nuovi e diversi. Di riempire cuore e cervello di aria fresca, perché se ignoro questi bisogni rischio di scoppiare come un palloncino che sia stato gonfiato a dismisura.

Ma prima di regalarmi la (credo meritata) pausa, desidero scrivere un ultimo post scomodo, uno di quelli che pubblico ogni tanto, una sorta di riflessione da portare con me nelle prossime settimane. Chissà, magari ripensando con calma alla questione riuscirò a vederla con maggiore serenità.

L’argomento è ancora una volta il corpo di noi donne. Scrivo ancora una volta perché è un argomento del quale ho disquisito spesso.

Ho scritto parecchie volte a proposito della lotta al cosiddetto body shaming, della lotta contro tutta una serie di atteggiamenti connessi nonché dei condizionamenti ai quali siamo tutti sottoposti. Ne ho scritto qui, nel blog, e ne ho scritto per SoMagazine che mi ha dato più volte l’opportunità di farlo (e ringrazio sentitamente per questo).

L’ultimo post per SoMagazine è recentissimo: è datato 22 luglio e parla della famigerata, temibile e fatidica prova costume. La mia posizione è piuttosto chiara e direi che è tutta contenuta nel titolo: “Prova costume? No, grazie”.

Diciamo che è un invito a volere bene a noi stessi, a perseguire la salute e il reale benessere, a concederci qualche sbavatura, qualche imperfezione e, soprattutto, a non farci schiacciare dalla ricerca della perfezione a tutti i costi.

Quel mio articolo era stato scritto circa una settimana prima rispetto alla data di pubblicazione, ovvero quando non era ancora esplosa la bomba della foto di Chloë Moretz, attrice e modella statunitense, pubblicata da Io Donna. Leggi tutto

Stella Jean SS 2016 batte Kanye West mille a zero

Mi ero ripromessa di stare zitta, di tenere la mia boccaccia chiusa, ma non ce la faccio: oggi mi sono seduta qui alla scrivania con l’intenzione di scrivere un post a proposito della bellissima collezione Stella Jean SS 2016 e, mentre rinfrescavo la memoria rileggendo il comunicato stampa e mentre annuivo convinta davanti alla dichiarazione d’intenti della brava stilista, mi è tornato in mente l’episodio incriminato e, d’un tratto, mi sono resa conto che i margini cedevano rendendomi impossibile tacere.

A quale episodio mi riferisco? All’assai infelice espessione “migrant chic” pronunciata da Anna Wintour (temibile e temuta direttrice di Vogue, ovvero quella che è considerata la più autorevole rivista di moda statunitense e mondiale) per definire la collezione Yeezy Season 3 presentata dal rapper Kanye West.

Vi riassumo brevemente i fatti: la regina di Vogue, intervistata per un programma della televisione americana, si è lasciata scappare (o forse sono io che spero che le siano scappate…) quelle parole mentre raccontava la sua esperienza risalente allo scorso febbraio in occasione della sfilata-spettacolo del rapper (marito di Kim Kardashian) al Madison Square Garden di New York.

Inutile sottolineare che il web si è riempito di commenti al vetriolo e richieste di scuse a profughi e migranti che, a stento, riescono ad avere un cappotto per difendersi dal freddo; inutile dire come in molti abbiano definito vuoto e superficiale il mondo della moda (ma grazie Mrs. Wintour, ottimo lavoro).

La cosa peggiore è il fatto che lo show che ha presentato la collezione (una collaborazione tra Mr. West e l’artista Vanessa Beecroft con centinaia di persone tra comparse e modelli) era in effetti volutamente (!) ispirato a un campo profughi: come ha commentato qualcuno su Twitter “perdonare la collezione di Kanye e descriverla ‘migrant chic’ è totalmente inappropriato”.

Sapete una cosa? Sono d’accordo, completamente. Leggi tutto

Se qualcuno augura la morte alle fashion blogger

Questo è un post di solidarietà e di orgoglio: sono una fashion blogger e ne sono orgogliosa.
Vi chiederete: perché questa dichiarazione? Ora ve lo racconto.

Lunedì 21 dicembre, il magazine online pizzadigitale.it ha pubblicato un articolo firmato da Andrea Batilla, un articolo dal titolo illuminato e illuminante: “A morte le fashion blogger”.
Tale titolo è tanto esaustivo da far passare in secondo piano l’articolo stesso se non per una frase altrettanto illuminata e illuminante: “Sappiamo bene che quelle ragazzine idiote si meritano tutte di tornare a passeggiare il sabato pomeriggio in qualche centro commerciale della provincia”.
Le “ragazzine idiote” sono le fashion blogger e sottolineo l’uso del “tutte”.
A questo punto, si è scatenato il caos, anche perché l’articolo era completo di foto di persone che non erano state interpellate.
Scrivo era perché tale articolo è stato poi cancellato: resta quello che ho copiato qui sopra.

Questo mio post è dunque di solidarietà verso la categoria fashion blogger della quale sento di fare parte ed è di orgoglio perché non mi vergogno affatto se e quando mi definiscono tale.

Mi risulta che una delle persone la cui foto è finita nell’articolo abbia sporto denuncia all’Ordine dei Giornalisti: pizzadigitale.it è una testata registrata presso il Tribunale di Milano con un direttore responsabile che dunque risponde in sede civile e penale di quanto pubblicato.
Lo stesso Andrea Batilla, tra l’altro, figura come co-direttore ed è menzionato con tale ruolo nella pagina dedicata alla redazione. Leggi tutto

Non si dice né “sei cessa” né “fai schifo”

Sottotitolo: Siamo tutti cyberbulli (?)

Lo so, titolo e sottotitolo di questo post sembrano bell’e pronti per una trasmissione televisiva o un libro, ma non è così.

Vi avviso, sto per dire la mia opinione sull’ultima polemica fashion, quella sorta attorno all’outfit indossato da Daniela Santanchè in occasione della prima alla Scala dello scorso 7 dicembre: finora me ne sono stata buona e in silenzio a leggere e ad ascoltare tantissimi commenti e ho avuto solo una piccola défaillance in un forum del quale faccio parte, non ho resistito e sono intervenuta.

Ora, però, ho voglia di dire anch’io alcune cose e lo faccio per un semplice motivo: ho capito ciò che mi infastidiva in tutta la querelle e l’ho capito facendo il collegamento a un altro episodio, anche perché è qualcosa su cui, in realtà, riflettevo da molto tempo.

Cosa sia successo a Milano lo sanno anche i bambini delle elementari: la Santanchè si è presentata all’inaugurazione della stagione dell’opera in gonna verde smeraldo firmata Ultràchic, camicia bianca, papillon in tinta con la gonna e gilet in pelliccia (vera o ecologica non lo so).
Apriti cielo: la cosa più divertente che le hanno detto è stata “sembri un Arbre Magique”, la più inquietante “fai schifo”.
Qualcuno ha affermato con gran convinzione che “far parlare di sé era quello che voleva”.

Secondo episodio: sulla pagina Facebook di Sodini, azienda con la quale collaboro (scrivo per il loro SoMagazine), ho trovato una foto della cantante Laura Pausini con un paio di orecchini del marchio e una gonna di un brand che si chiama Maison About (nome che avete già trovato qui sul blog).
Sotto un commento: “gioielli stupendi, lei cessa”. Leggi tutto

I risvolti imprevisti della collezione Balmain x H&M

Haute Couture, prêt-à-porter, fast fashion: la lotta tra le varie visioni della moda è in corso ormai da tempo.
A dare un notevole colpo alla questione è – da parecchi anni – il colosso svedese H&M: alzi la mano chi può dire in tutta sincerità di non aver MAI comprato un capo di uno dei protagonisti assoluti del fast fashion.
Nato in Svezia nel 1947 e detentore di 3.733 negozi in tutto il mondo al 30 settembre 2015 (dati ufficiali), il marchio H&M porta avanti una filosofia ben precisa riassumibile in «la moda non è una questione di prezzo».
Fin dal 2004, ha concretizzato questa idea in una serie di capsule collection o forse è meglio dire limited edition, ovvero campagne speciali con stilisti di fama mondiale e style icon: tra i nomi, figurano Karl Lagerfeld (il primo), Stella McCartney, Elio Fiorucci, Roberto Cavalli, Rei Kawakubo, Comme des Garçons, Jimmy Choo, Lanvin, Versace, Marni, Maison Martin Margiela, Alexander Wang (lo scorso anno). E scusate se è poco.
Il gruppo H&M è diventato così maestro assoluto nel masstige, termine che nasce dalla contrazione di mass market e prestige: è una strategia di co-branding che riprende le leve del marketing di lusso (valore estetico e qualitativo) abbassando però la leva del prezzo e spingendo piuttosto sul valore della percezione simbolica, ovvero sul richiamo e sul fascino esercitato da una determinata maison o da un determinato brand. H&M, ripeto, può considerarsi maestra e direi antesignana in tutto ciò con un sold out praticamente immediato per ogni collezione di co-branding come quasi nemmeno un concerto di Justin Bieber.
Ora è arrivato il turno della collezione Balmain x H&M: comprende abbigliamento e accessori per uomo e donna e sarà disponibile a partire dal 5 novembre in alcuni punti vendita selezionati e sul sito. La collaborazione firmata da Olivier Rousteing, direttore creativo della maison francese dal 2011, ha debuttato il 20 ottobre a New York, naturalmente alla presenza di celebrity, it-girl e modelle che si sono mescolate agli esponenti della stampa specializzata (nella foto in alto, Olivier Rousteing, Kendall Jenner e Gigi Hadid si divertono al party – fonte sito H&M).
Fin qui – probabilmente – non vi ho detto nulla di nuovo e forse vi state domandando se io stia per dirvi che andrò a fare la fila all’alba fuori dal negozio meneghino di piazza Duomo (no, non ci andrò, forse darò una sbirciata sul sito, magari a qualche bijou) oppure se voglia lanciarmi in una presentazione minuziosa dei capi della collezione.
Nulla di tutto ciò: non mi interessa entrare nelle discussioni (già accese) tipo «ma lo spirito di questa collezione è autenticamente Balmain?» né vi dirò se a me piace né se apprezzo o meno il masstige. Strano ma vero, stavolta sono interessata ad altro, non ai contenuti specifici (dovrò preoccuparmi per me stessa?) bensì a un contorno, a un risvolto collaterale ben preciso, sicuramente imprevisto e a mio avviso illuminante.
Dovete sapere che è successa una cosa: in netto anticipo su tutti, persino sul colosso del low cost, lo scorso 5 ottobre la redattrice e scrittrice di Chicago Kathryn Swartz Rees ha condiviso sul proprio account Instagram ben 99 scatti di accessori, borse, abiti e scarpe della collezione.
Non si è trattato di un attacco hacker, ma di una semplice ricerca su Google fatta «con i parametri giusti, il sito di H&M è stato indicizzato da Google e mi è capitato di cercare al momento giusto». Così ha detto Kathryn e se volete sapere tutto in dettaglio, potete leggere qui il suo racconto.
Ovviamente, in H&M non sono stati particolarmente felici e hanno chiesto a Kathryn di rimuovere le foto, cosa che lei – gentilmente – ha fatto. Incidente chiuso.
Ecco, il mio interesse verso questa collezione rientra tutto in tale episodio che è la dimostrazione di come, attraverso il grande web, nulla sia più riservato, nemmeno se in ballo ci sono enormi interessi economici e nemmeno se gli attori protagonisti sono aziende importanti che certamente ben sanno come si fanno certe cose.
Perché la verità è che, nel momento in cui mettiamo qualcosa in rete, quel qualcosa cessa di essere nostro e in qualsiasi momento e in qualsiasi modo qualcuno può arrivare al nostro tesoro. Non importa quale livello di privacy crediamo di aver impostato né importa quale sia lo scopo di chi viola i nostri contenuti, dalle intenzioni più fraudolente alla semplice curiosità magari un po’ morbosa.
Questo episodio è, secondo me, un ottimo promemoria. Per tutti.
Direte voi: e lo dici proprio tu? Sì, amici miei, perché nonostante il web sia il mio lavoro, nonostante abbia questo blog, nonostante sia fortemente presente su svariati social network, di questa cosa sono in realtà ben conscia e da sempre cerco di adottare l’unica strategia a mio avviso possibile: se non voglio fare sapere una cosa non la metto in rete, nemmeno con un livello di privacy pari a quello della NASA e nemmeno dietro un milione di password, perché so perfettamente che da qualche parte ci sarà sempre qualcuno in grado di abbattere tutto ciò.
Non credete a me? Guardate l’esempio H&M e guardate un video che desidero condividere da tempo e che, ora, cade proprio come il cacio sui maccheroni – come si suol dire.

Detto tutto ciò, prometto che dal prossimo post si torna a parlare di moda pura, senza risvolti imprevisti.
E se qualcuno andrà a fare la fila da H&M mi faccia poi sapere le sue impressioni: ho dato l’incarico a una delle studentesse del mio nuovo corso di Fashion Web Editing in Accademia Del Lusso, ma chissà se mai se ne ricorderà nel mezzo della frenesia da Balmain.

Manu

C’era una volta… ovvero favole da Fashion Week

C’era una volta una giovane donna molto promettente, una stilista bravissima e di grande talento: le sue creazioni erano raffinate ed eleganti e sapevano parlare un linguaggio senza tempo.
C’era una volta un ufficio stampa, esterno, che la seguiva: le persone che ci lavoravano erano precise, efficienti e rispondevano puntualmente alle richieste di accredito agli eventi, sia che la risposta fosse un sia che la risposta fosse un no.
Poi, un giorno, le strade dell’ufficio stampa e della stilista si separarono.
Lei scelse un nuovo ufficio stampa, anch’esso esterno: peccato, però, che quei signori non avessero affatto la stessa politica dei primi, ovvero non era per loro abituale e normale rispondere.
La favola finisce qui e si rientra nella realtà, la stilista c’era e c’è ancora (per fortuna!) e c’è ancora il secondo ufficio stampa (no comment). A proposito di questi ultimi, mi tocca dire che, nonostante la mia richiesta di accredito per la Fashion Week appena terminata e nonostante l’intervento diretto da parte dello staff della stilista, sto ancora aspettando la loro risposta per una sfilata che è stata mercoledì scorso.
Bizzarro, vero? È bizzarro che l’opinione del cliente rappresentato – che, ripeto, è intervenuto direttamente – conti zero.
Ovviamente, il fatto grave non è che non mi abbiano accreditata, ci mancherebbe, liberissimi di farlo; sottolineo che ciò che è grave è che non abbiano risposto.
E c’è di più: è lo stesso ufficio che la scorsa stagione mi invitò ad un’altra sfilata per poi lasciarmi fuori.
Dunque, non è un caso né si tratta di un singolo episodio sfortunato: è un comportamento reiterato.
E per fortuna, queste persone si occupano di PR, acronimo di pubbliche relazioni.
Bel modo di relazionarsi. Ho ricevuto tanti no, in varie occasioni, più o meno gentili, più o meno eleganti, più o meno motivati: il non rispondere, però, non è fare pubbliche relazioni.
Ah, quasi dimenticavo un altro dettaglio, la ciliegina sulla torta: il giorno successivo alla sfilata, l’ufficio stampa in questione mi ha mandato un promemoria delle presentazioni di altri clienti. Forse hanno improvvisamente ritrovato il mio indirizzo?
Ma guarda un po’ che miracoli accadono talvolta, altro che favole…
Le solite storie, insomma.
Che peccato: per la prima volta, dopo tante stagioni in cui ho seguito con entusiasmo la mia amata e talentuosa stilista, mi viene negata la possibilità di farlo. Negata si fa per dire: ignorata.
Forse sto antipatica all’ufficio stampa: non se la saranno presa per il post di marzo, quando mi sono sfogata per essere stata lasciata fuori dall’altra sfilata?
No, dai, ho solo detto la verità e non ho neppure fatto il loro nome. E poi, se sono offesi, perché mi mandano alcuni inviti? Non sarebbe coerente, giusto?
Pensate che un ufficio del quale avevo invece fatto il nome (in precedenza e relativamente ad altri episodi), all’epoca di quella pubblicazione, mi aveva subito convocata chiedendomi un confronto diretto: certo, non erano contenti ma, anziché offendersi, avevano agito. E questo vuol dire avere coraggio.
Lavorando capita di sbagliare, ma se si sbaglia si chiede scusa. Si impara dai propri errori e le simpatie / antipatie si riservano alla vita privata, soprattutto se ci si occupa di PR. Troppo comodo ignorare, troppo stupido offendersi a cose fatte.
Perché ho scritto questo post e cosa spero di ottenere? Nulla di particolare: l’ho scritto perché, ogni volta in cui vivo qualcosa che non mi piace, anziché subire e macinare rabbia, provo a fare qualcosa di concreto.
Infatti, questo post è stato preceduto da una lettera di protesta indirizzata alla maison con lo scopo di renderli edotti della situazione che ho appena raccontato anche a voi nonché del comportamento del nuovo ufficio stampa scelto: non perdo mai la speranza che certe cose possano cambiare.
Comunque, mi viene in mente un detto delle nostre nonne: il lupo perde il pelo ma non il vizio. E certi lupi, lupi si fa per dire, più che altro non perdono le loro pessime abitudini.
Che noia tutto ciò. Anzi, che-barba-che-noia, come diceva la simpaticissima Sandra Mondaini.
Visto che il c’era una volta che ha fatto da incipit a questo post era preso in prestito dalle fiabe e visto che ho citato il lupo che mi fa pensare a Cappuccetto Rosso, chiudo usando la formula e vissero tutti felici e contenti.
Quasi tutti.

Manu

Cara Delevingne e i mocassini nei quali imparare a camminare

La modella Cara Delevingne ha deciso di dire addio a moda e passerelle: 23 anni appena compiuti, britannica, ha dichiarato di non riuscire più a sopportare lo stress del mondo in cui stava conducendo una brillante carriera.
A me dispiace: ho da sempre un grande debole per lei.
Penso che Cara sia una delle poche giovani top model in grado di far rivivere i fasti degli anni ’80, quando le modelle erano le protagoniste quasi assolute: non possiede solo fisico e portamento, ma anche carisma e carattere.
E non ha paura di giocare con la sua immagine: fa le smorfie, scherza, è ironica.
Lei – con le sopracciglia marcate e il comportamento un po’ da monella – ha portato disinvoltura in un ambiente troppo spesso coi nervi a fior di pelle, ma alla fine la frenesia della moda l’ha stancata e allontanata.
Ho avuto la fortuna di incontrarla a Milano in settembre 2012 in occasione della Fashion Week, dopo la sfilata di Dsquared2. Difficilmente chiedo alle persone famose di poter essere fotografata con loro, è una cosa che mi infastidisce e mi imbarazza. Cara, però, era divertita dal farsi fotografare con tutti e si prestava volentieri, così mi sono lanciata anch’io. Eccoci qui sopra.
Dopo le sue dichiarazioni, in rete sono spuntati commenti acidi e paragoni a mio avviso fuori luogo, cattiverie gratuite, giudizi superficiali e anche un po’ banali e scontati. Del tipo “ma vai a lavorare in miniera”.
Perdonatemi ma questo bisogno morboso di giudicare le vite altrui io proprio non lo capisco. Posso capire la curiosità verso i personaggi celebri (per quanto non la comprendo quando diventa esagerata), ma non capisco l’esigenza di sparare sentenze a tutti i costi.
E poi mi sfugge la logica di tali sentenze: siamo così sicuri del fatto che un lavoro sognato e ambito da molti sia garanzia di felicità per chi quel mestiere lo fa?
Certo, non voglio negare che ci siano lavori meno simpatici – definiamoli così – rispetto a fare la modella, ma non sarà che il nostro giudizio si ferma un po’ troppo in superficie e guardiamo solo il lato luccicante, quello che è sotto gli occhi di tutti?
Vedo le modelle nei backstage delle sfilate e in giro per casting e credetemi se vi dico che non invidio affatto la loro vita. È vero, viaggiano, hanno fama (non tutte), guadagnano bene (non tutte), ma la pressione psicologica su di loro è fortissima.
Dover essere sempre perfette non è un mestiere facile, tutt’altro, e ogni donna lo sa bene: quante volte, alzandoci al mattino, vorremmo scomparire piuttosto che presentarci al mondo? Ecco, una modella non può nascondersi in nessun posto.
Vi prego, non ditemi “se l’è scelto lei”. Certo, nessuno le obbliga, ma questo non comporta che fare la modella sia semplice o che sia tutto rose e fiori.
A noi piacerebbe se, davanti a una nostra difficoltà, qualcuno ci dicesse “te lo sei scelto tu”? A me non piacerebbe e, in un momento di crisi, mi piacerebbe piuttosto una parola di comprensione, magari anche un rimprovero, ma costruttivo.
Cara ha fatto affermazioni molto gravi: ha spiegato di essere arrivata a odiare il proprio corpo e che lo stress le ha scatenato una forte forma di psoriasi. E ha aggiunto che le passerelle le hanno fatto dimenticare quanto fosse giovane e, anzi, l’hanno fatta sentire più vecchia.
Se pensate che Miss Delevingne sia esagerata, vorrei mostrarvi il video di una modella svedese di nome Agnes Hedengård: la ragazza, 19 anni, racconta di lavorare da 5 e di non riuscire più a salire sulle passerelle perché oggi è giudicata troppo grassa da molte agenzie. Guardatela e ascoltatela: io non dico nulla, a ciascuno la propria opinione.
Permettetemi solo una piccola riflessione finale, un aneddoto personale.
Una volta mi hanno detto una cosa che mi ha fatto rimanere piuttosto male. Suonava pressapoco così: “devi essere una che ha pochi problemi, sorridi sempre”. Vi dirò che questa persona non aveva capito granché di me: i problemi li ho, come tutti, però non mi piace andare in giro con la faccia triste. Secondo me, avere la faccia triste è controproducente: se abbiamo l’aspetto di persone sempre problematiche, non facciamo altro che allontanare gli altri. Credo, invece, che sfoderare un sorriso predisponga meglio sia noi che gli altri.
Forse quelle persona non voleva dirmi una cattiveria, forse a suo modo voleva farmi un complimento, ma gli è riuscito malissimo e a me quelle parole sono suonate odiose, esattamente come sentirsi dire “vai a lavorare in miniera”.
Un proverbio degli indiani d’America dà un consiglio estremamente valido: “Prima di giudicare una persona, cammina per tre lune nei suoi mocassini.”
Cerchiamo di riconquistare una cosa che sembra un po’ sparita, ultimamente: la capacità di metterci nei panni degli altri. Meno giudizi e più umana simpatia verso debolezza e (presunti) errori.

Manu

A proposito dell’eccessiva magrezza di alcune modelle: il mio articolo su una pubblicità di Saint Laurent bloccata dalla Advertising Standards Authority.

MFW, Stella Jean Uomo SS 16 e le mie riflessioni

È da poco terminata la kermesse di Milano Moda Uomo e a me tocca ammettere che, stavolta, ho accettato pochissimi inviti.

Credo sia dipeso dal fatto che preferisco stare un po’ alla finestra come spettatrice perché, francamente, devo ancora digerire la nuova direzione che la moda maschile sta prendendo.

Ma come – direte voi – ti occupi di moda e non comprendi i nuovi trend? Ebbene sì, nonostante dovrebbero essere il mio pane quotidiano, come si suol dire, in certe cose in realtà sono lenta come un bradipo – con tutto il rispetto per i bradipi, ovviamente.

Ciò che devo ancora digerire è la moda genderless o no sex, chiamatela come preferite, quella che propone capi neutri (neutri si fa per dire) indossabili sia da uomini sia da donne, senza grosse distinzioni.

Durante i cinque giorni dedicati alle tendenze uomo per la prossima primavera / estate 2016 si sono visti capi che spesso sembrano usciti più dal guardaroba femminile (per questo scrivo “neutri si fa per dire”): mi domando se e quanto tutto ciò sia una provocazione. Leggi tutto

Coco Chanel e la lotta (continua) contro la volgarità

È un giorno qualunque di mezza estate.
Sono felice: faccio parte di una commissione d’esame e sto ascoltando ragazzi in gamba, pieni di talento e passione.
Sfoglio le loro tesi una dopo l’altra e trovo tanti spunti interessanti, nuove idee che si posano come semi nel terriccio fertile della mia testa.
Poi, d’un tratto, leggo una frase, quella della foto qui sopra: scatto velocemente col mio iPad, affascinata.
Abitualmente, non sono il tipo di persona che condivide su Instagram o su Facebook le frasi celebri, eppure questa mi colpisce con forza.
Tutto ciò è successo pochi giorni fa e oggi mi ritrovo a pensare ancora a quelle parole, alla loro forza e alla verità che per me rappresentano.
Penso da sempre che il lusso non risieda in ciò che è materiale; purtroppo, però, oggi si confondono molto spesso le cose e molti ricercano il lusso proprio nella sfacciata ostentazione di fasti e ricchezze.
Un errore grossolano: così si scivola nella volgarità, mentre – come affermava saggiamente Coco Chanel – il lusso esiste solo dove la volgarità è assente e solo dove c’è invece eleganza.
Usando il termine eleganza, mi riferisco al suo senso puro: non dimentichiamo che tale parola deriva dal latino eligere, cioè scegliere.
L’eleganza più autentica, dunque, sgorga da un’azione esatta: il sapere scegliere, l’eleggere. È un’arte di vivere e di pensare che va ben oltre ciò che indossiamo.
Diana Vreeland, altra importantissima icona della moda e figura autorevole che aveva dimestichezza col concetto di eleganza, non credeva, per esempio, necessariamente nel cosiddetto buon gusto. “Abbiamo tutti bisogno di un po’ di cattivo gusto. È la mancanza totale di gusto che non condivido”, era solita ripetere.
La volgarità non è (o non è solo) un vestito di poco gusto, qualche parolaccia, un’esternazione o una battuta poco felice: è un concetto molto più sottile, strisciante, subdolo, insinuante. Per questo spesso ci imbroglia e ci distrae.
La volgarità peggiore è quella d’animo, dei cattivi pensieri, dei cattivi sentimenti e tale volgarità – ahimè – ha un’ampia gamma di sfumature.
Si nasconde nell’esibizionismo, nell’ostentazione, nell’eccesso.
Nell’arroganza, nella prepotenza, nella tracotanza, nella superbia, nella presunzione.
Nella disonestà, nella scorrettezza, nella mediocrità, nella maldicenza, nella meschinità, nell’invidia.
Quanto aveva (e ha) ragione Mademoiselle Coco, la volgarità è una gran brutta cosa e va combattuta, senza sosta, senza arrendersi.
Nel mio piccolo, ci provo: come dice lei, rimango in gioco per combatterla e provo a tenere lontani dal mio animo quei sentimenti, provo a tenere lontane le persone che ne sono portatrici.
Non è facile, ma almeno ci provo. Con tutta me stessa.

Manu

Saint Laurent e quel confine (sottile) tra magrezza e malattia

Giorni fa, ho letto una notizia che ha catturato la mia attenzione: in Inghilterra, una pubblicità della maison Saint Laurent è stata proibita in quanto la protagonista della foto è una modella troppo magra.
La Advertising Standards Authority (in acronimo ASA), l’agenzia indipendente che regola il mercato pubblicitario inglese, ha giudicato che la protagonista apparisse decisamente sottopeso, precisamente «the model appeared unhealthily underweight in the image».
L’immagine in bianco e nero era apparsa sull’edizione britannica della rivista Elle appartenente al gruppo editoriale Hearst: la modella, sdraiata per terra, indossa un abito corto che lascia vedere gambe lunghissime e magrissime.
Non so che impressione faccia a voi, ma vi dirò la mia opinione: più che uno scatto glamour, mi sembra che la ragazza sia a terra, in quella posizione, con gli occhi chiusi e le braccia sulla testa, perché ha perso i sensi.
La maison francese ha contestato le accuse, naturalmente, ma sembrerebbe non abbia dato una risposta ufficiale all’ASA la quale, nelle motivazioni a fronte della censura, scrive «the ad was irresponsible», ovvero «la pubblicità era irresponsabile».
Da tempo sostengo che nella moda regni una certa ipocrisia: tutti si schierano contro anoressia e disordini alimentari eppure molti stilisti, brand e maison continuano a scegliere ragazze magrissime, a volte scheletriche. Anzi, più che sceglierle creano proprio la richiesta.
Sono felice che l’ASA abbia preso questa posizione, facendo una scelta coraggiosa e dicendo a voce alta ciò che molti, guardando la foto, avrebbero pensato: quell’immagine è irresponsabile.
E mi auguro di non vederla mai su nessuna rivista italiana con lo scopo di pubblicizzare degli abiti (assurdo!): il fatto di averla pubblicata, nonostante la cosa mi ripugni, è una scelta precisa.
Ho voluto infatti dare spazio alla notizia per sottolineare che è sempre possibile fare scelte indipendenti e di rottura.
Business is business, si dice, ma ogni tanto – per fortuna – qualcuno ci mette anche un po’ di coscienza.

Manu

Perché io non sto né con Dolce & Gabbana né con Elton John

Credo che molti, leggendo il titolo, abbiano già capito di cosa io desideri parlare oggi, tuttavia riassumo i fatti a beneficio di chi – magari – era in vacanza e si è perso la polemica planetaria.
Planetaria, sì, quindi credo si sia salvata solo la nostra astronauta Samantha Cristoforetti che attualmente si trova nella Stazione Spaziale Internazionale: forse, standosene lassù, si è risparmiata il tutto (a proposito, avete visto le sue foto pazzesche dell’eclissi solare di venerdì?).

Venendo a noi: Domenico Dolce e Stefano Gabbana, anime dell’omonima maison Dolce & Gabbana, hanno rilasciato un’intervista al settimanale Panorama.

Nell’intervista, i due stilisti hanno parlato della loro infanzia, del rapporto coi genitori, del legame affettivo tra di loro, dell’amore, della famiglia e dei figli, inclusa la seguente dichiarazione di Domenico.
“Non abbiamo inventato mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra Famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre. Ma lei accetterebbe di essere figlia della chimica? Procreare deve essere un atto d’amore, oggi neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste sperimentazioni.”

In effetti, la posizione (quella di Dolce, Gabbana ha rilasciato in realtà dichiarazioni un po’ diverse) era chiara fin dal titolo in copertina: “Viva la famiglia (tradizionale)”. Leggi tutto

Il meglio (e il peggio) della mia Settimana della Moda

Viene preparata a lungo da tutti gli addetti al settore, poi arriva e passa in un attimo: mi riferisco alla Settimana della Moda.

Quella appena terminata ha visto andare in scena (anzi, in passerella) le collezioni relative al prossimo autunno / inverno 2015 – 2016 e così ora sappiamo come ci vestiremo o almeno come gli stilisti ci vestirebbero: non solo, come ormai puntualmente accade a ogni stagione, la settimana è stata accompagnata da un carico di polemiche e discussioni di ogni genere e grado.

Quanto a questo clima di critica, prendo la mia parte di colpa: abitualmente preferisco essere costruttiva e dare spazio a ciò che mi piace, ma oggi desidero spendere anch’io qualche parola su alcuni comportamenti e atteggiamenti che mi hanno lasciato un’impressione molto negativa, purtroppo.

Già, confesso che è stata una settimana dolce e amara allo stesso tempo, ricca di luci ma anche di ombre: nonostante lo scorso ottobre abbia già scritto un altro articolo piuttosto dettagliato sulla questione accrediti, non riesco a stare zitta e desidero tornare a evidenziare un paio di concetti che esulano da qualsiasi distinzione di settore e che dovrebbero appartenere a tutti, qualsiasi mestiere si faccia.

Partiamo dalle ombre, perché preferisco occuparmi subito della parte brutta e riservarmi quella bella alla fine: spero che, mandato giù il boccone amaro, mi rimanga in bocca soltanto il dolce. Leggi tutto

Dalla lite Veronesi-Clio a Winnie Harlow e Jamie Brewer

Mi sorprendo ogni volta in cui mi capita di avere la testimonianza evidente di quanto ancora oggi siamo assurdamente schiavi di certi luoghi comuni.

Noi esseri umani siamo riusciti a compiere imprese grandiose, siamo andati sulla Luna e abbiamo combattuto malattie che erano autentici flagelli, eppure ciò che ci riesce tuttora difficile è abbattere quei limiti e quelle barriere che costruiamo dentro le nostre teste.

Vi chiederete il perché di un esordio tanto diretto: forse avete sentito parlare della polemica nata da un’infelice esternazione di Giovanni Veronesi, sceneggiatore, regista e attore, ai danni di Clio Zammatteo, truccatrice famosa con lo pseudonimo di Clio Make Up, titolo della trasmissione televisiva che conduce con successo e nome di un seguitissimo blog.

Veronesi conduce invece insieme a Massimo Cervelli Non è un paese per giovani, noto programma radiofonico della Rai, precisamente di Radio 2.

Erano i giorni dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica e i due conduttori avevano lanciato il quesito “Quale donna vorresti in quel ruolo?”: sentendo nominare proprio Clio, Veronesi ha risposto: “Non sapevo neanche chi era se non me lo spiegavano adesso. È una cicciona.”

Naturalmente, dopo questa affermazione, sono stati versati fiumi di inchiostro e oggi mi aggiungo anch’io: il fatto si commenta da solo talmente è – a mio avviso – tristemente evidente, una figuraccia epica, tuttavia desidero esprimere un quesito e un rammarico. Leggi tutto

Cayetana de Alba e le mie riflessioni su libertà e ipocrisia

Alcuni giorni fa ho letto della morte della Duchessa Cayetana de Alba: aveva 88 anni ed è deceduta a causa delle complicazioni di una polmonite. Mi è dispiaciuto perché questa donna sopra le righe e allergica alle convenzioni mi era decisamente molto simpatica.

Ricordo che tempo fa un mio contatto di Facebook pubblicò un piccolo post di cordoglio per la scomparsa di un personaggio famoso: non ricordo più chi fosse questo amico e non ricordo nemmeno chi fosse la persona deceduta. Ricordo, però, un commento che mi risultò molto sgradito: qualcuno schernì il mio amico dicendogli che non era morto un suo parente, bensì uno sconosciuto. Evitai di intervenire, ma ribadisco che trovai inopportuno quel commento: è ovvio che la scomparsa di un amico, di un parente o di qualcuno che fa parte della nostra quotidianità ci causi un dolore più vivo, ma ciò non vieta di dispiacersi per la morte di qualcuno che non conosciamo direttamente e che tuttavia ha lasciato una traccia nella storia, di molti o di tutti.

Doña María del Rosario Cayetana Paloma Alfonsa Victoria Eugenia Fernanda Teresa Francisca de Paula Lourdes Antonia Josefa Fausta Rita Castor Dorotea Santa Esperanza Fitz-James Stuart y de Silva Falcó y Gurtubay, conosciuta come Cayetana de Alba, semplicemente Cayetana e Tana per i familiari, era nata nel 1926. La lista dei suoi titoli, più di quaranta, era ed è impressionante: secondo il Guinness World Records è a tutt’oggi la nobildonna con più titoli riconosciuti e ne aveva perfino di più della regina Elisabetta d’Inghilterra.

È stata la terza donna a detenere il titolo che la poneva a capo della nobilissima casata d’Alba, esistente prima ancora che Cristoforo Colombo scoprisse l’America: era lontanissima parente di Winston Churchill e di Diana, Principessa del Galles.

Il resto lo potete leggere su Wikipedia: a colpire la sottoscritta sono invece i dettagli della sua infanzia e della sua giovinezza e in generale di tutta la sua vita, vita ricca di risvolti e di segni tutti da leggere. Leggi tutto

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