Se qualcuno augura la morte alle fashion blogger

Questo è un post di solidarietà e di orgoglio: sono una fashion blogger e ne sono orgogliosa.
Vi chiederete: perché questa dichiarazione? Ora ve lo racconto.

Lunedì 21 dicembre, il magazine online pizzadigitale.it ha pubblicato un articolo firmato da Andrea Batilla, un articolo dal titolo illuminato e illuminante: “A morte le fashion blogger”.
Tale titolo è tanto esaustivo da far passare in secondo piano l’articolo stesso se non per una frase altrettanto illuminata e illuminante: “Sappiamo bene che quelle ragazzine idiote si meritano tutte di tornare a passeggiare il sabato pomeriggio in qualche centro commerciale della provincia”.
Le “ragazzine idiote” sono le fashion blogger e sottolineo l’uso del “tutte”.
A questo punto, si è scatenato il caos, anche perché l’articolo era completo di foto di persone che non erano state interpellate.
Scrivo era perché tale articolo è stato poi cancellato: resta quello che ho copiato qui sopra.

Questo mio post è dunque di solidarietà verso la categoria fashion blogger della quale sento di fare parte ed è di orgoglio perché non mi vergogno affatto se e quando mi definiscono tale.

Mi risulta che una delle persone la cui foto è finita nell’articolo abbia sporto denuncia all’Ordine dei Giornalisti: pizzadigitale.it è una testata registrata presso il Tribunale di Milano con un direttore responsabile che dunque risponde in sede civile e penale di quanto pubblicato.
Lo stesso Andrea Batilla, tra l’altro, figura come co-direttore ed è menzionato con tale ruolo nella pagina dedicata alla redazione. Leggi tutto

Occorre fare attenzione a ciò che desideriamo – e non solo a Natale

Anche quest’anno, i regali più importanti che metto sotto l’albero di Natale (che, per inciso, non ho nemmeno fatto) non sono cose tangibili. Non sono oggetti da impacchettare.
Questi doni – dei quali sono estremamente grata – sono le dimostrazioni di stima nonché le parole di ringraziamento per ciò che provo a fare ogni giorno attraverso A glittering woman e attraverso tutti gli altri progetti ai quali lavoro.
Mi emoziono particolarmente quando sono i designer, gli stilisti e gli artisti che incontro ogni giorno a esprimermi ringraziamento e gratitudine. Sapete, io non so creare nulla, purtroppo, nulla di concreto, ma quando qualcuno di questi meravigliosi creativi si ritrova nelle mie parole e ne è felice, allora sento di aver fatto qualcosa di buono anch’io.
L’ho già detto: tutto ciò non si incarta. Niente nastri né fiocchi né coccarde.
Eppure, non potrebbe esserci nulla che incarni meglio il mio modo di vedere, i miei valori, le cose che per me contano davvero, quelle per le quali ho lottato e che sono riuscita a realizzare anche se c’è ancora molta, moltissima strada da fare. E la scelta della foto che accompagna questo post rappresenta molto bene tutto ciò perché spesso mi sento come una formica alle prese con cose belle ma anche (troppo) grandi.
Sarò un’ingenua, una bambina mai cresciuta, una che non arriverà mai a quel successo che si misura (forse) in soldi e (forse) in like sui social network… sarà così, sarà quello il successo, ma per me, invece, il successo più grande è fatto in realtà di queste gioie e di queste soddisfazioni.
Perché se c’è una cosa che mi spaventa più di qualsiasi tribolazione lavorativa e / o economica è l’idea di poter arrivare alla meta scoprendomi sola.
Mi atterrisce l’idea di fermarmi e scoprire che attorno non c’è nessuno che provi stima reale, nessuno che sia (davvero) felice per me.
E tutto ciò mi ha fatto fare una riflessione: mi ha fatto pensare a quanto sia importante essere coerenti con noi stessi rispetto a ciò che desideriamo.
«Stai attento a ciò che desideri perché potresti ottenerlo»: è un aforisma attribuito a Oscar Wilde ed è qualcosa a cui penso spesso.
Vale per tutti, per me e per voi che state leggendo. E la coerenza prevede che stupirsi o lamentarsi di ciò che si è ottenuto dopo aver agito in un certo modo sia un atteggiamento piuttosto sciocco.
Nel mio caso, per esempio, è sciocco quando talvolta mi sorprendo di non riuscire a raggiungere determinati traguardi. Ho sempre agito fregandomene dei soldi e di quello che per molti è il successo, ho sempre preferito il lato umano anche sul lavoro e, naturalmente, c’è uno scotto da pagare. Dovrei farmene una ragione, definitivamente (sì, è un auto-rimprovero).
Allo stesso modo, però, sebbene in maniera diametralmente opposta, molte persone non dovrebbero stupirsi né di essere via via abbandonate né di ritrovarsi alla meta in solitudine. Mi riferisco a chi passa sul cadavere degli altri, chi pensa che i soldi siano più importanti di tutto, chi conquista la fama approfittando degli altri, chi pensa di poter comprare il successo. L’affetto (vero) e la stima (vera) non si comprano – per fortuna – e non c’è nessun sito web che li venda.
Agli occhi di coloro che ragionano in un’ottica di successo economicamente misurabile, desidero cose che fanno di me una persona poco ambiziosa.
In verità, ciò che desidero è la sostanza, cose poco vistose, forse, ma vere, maledettamente vere e preziose; in verità, pretendo moltissimo e sono tutt’altro che poco ambiziosa.
Sul fronte umano, sono una persona molto impegnativa ed esigente. Anche intransigente, a volte, lo ammetto, e avermi tra i piedi può essere una gran seccatura, soprattutto se si pensa di usarmi o se si fa parte di coloro che misurano le cose in soldi o in like.
Con queste persone divento poco empatica, poco tollerante, poco ben disposta e assai poco accomodante. Divento zero comprensiva e zero malleabile. Con loro, con gli opportunisti, gli arrampicatori e i venditori di fumo – e mentre che ci sono aggiungo i presuntuosi, i maleducati, gli arroganti e gli ingrati – divento acida quanto uno yogurt scaduto e divento spietata per parlare il loro stesso linguaggio. Con tutte queste persone, insomma, non ho pazienza, non più, né spazio né tempo né voglia.
È vero, non avrò decine di regali da scartare ma, in compenso, non mi è mai mancato qualcuno che stringesse la mia mano ogni volta in cui, bisognosa di conforto, l’ho tesa.
E sebbene ancora a volte mi arrabbi, sono grata di ciò che ho e cerco di mettere sempre più a fuoco i miei obiettivi anche tagliando i cosiddetti rami secchi.
Ecco perché affermo che ognuno di noi dovrebbe badare al fatto di desiderare ciò che vuole davvero ottenere (lo grassetto, sì) senza fare confusione.
Il mio augurio a tutti – e vale per me per prima – è dunque questo: essere coerenti con noi stessi e con ciò che desideriamo, qualunque cosa desideriamo. Qualsiasi aspirazione è lecita (naturalmente se onesta e non a scapito o danno di altri) ma le lacrime di coccodrillo sono solo inutili.
E poi vi auguro di non ritrovarvi soli alla meta, ma questo – naturalmente – è solo il mio umile punto di vista, influenzato da ciò che desidero io.

Buon Natale,
Manu

 

… Parlando di cose che mi rendono felice, una di queste è sicuramente la collaborazione con SoMagazine 🙂
E allora, da SoMagazine, estrapolo quattro articoli, uno per ognuno dei membri di questa meravigliosa avventura: i consigli tra il serio e il faceto della nostra effervescente Federica Santini per sopravvivere a un Natale coi suoceri, le preziose dritte per piatti succulenti del nostro super esperto di cucina Roberto Ferrara, l’editoriale scritto col cuore dalla nostra fantastica caporedattrice Sandra Bacci (toh, guarda, parla di desideri!) e infine la mia biografia non autorizzata di Babbo Natale (partendo dal look, naturalmente).
Io ho scelto questi articoli, ma in home page del nostro magazine trovate tanti altri spunti

 

 

Piccolo ricordo personale della grande Mariuccia Mandelli

Non mi piace.
Non mi piace che troppe persone siano andate via lasciando spazi vuoti che non verranno più riempiti.
Non mi piace il fatto che, nell’ultimo anno, questo sia avvenuto spesso, portandomi a scrivere molte volte parole di cordoglio.
È successo per persone che consideravo amici, come Emanuele (ti penso sempre).
È successo per persone che consideravo autentiche icone e continua fonte di ispirazione, come Elio Fiorucci, Micol Fontana, Marie-Louise Carven, Lynn Dell, Manuela Pavesi.
E, ora, tocca a lei, a Mariuccia Mandelli in arte Krizia. È venuta a mancare improvvisamente domenica sera, per un malore: avrebbe compiuto 91 anni a gennaio.
Ho avuto l’enorme fortuna di assistere a tre delle sue sfilate: quando al termine lei usciva, tutta la sala esplodeva in un boato. E ho potuto parlarle brevemente in occasione della sfilata tenutasi il 19 settembre 2013, l’ultima alla quale ho assistito.
Ero entrata in backstage così come moltissimi dei presenti: la Signora Mandelli era seduta, attorniata da amici, giornalisti, addetti ai lavori; al suo fianco c’era il marito, Aldo Pinto.
Io ero lì e morivo, combattuta tra la mia istintiva ritrosia – non mi piace importunare in alcun modo le persone famose – e la voglia di stringerle la mano.
Devo dire grazie a un mio carissimo amico, Andrea Tisci, se, alla fine, mi sono fatta avanti: devo dire grazie a lui se ho potuto prendere la mano di Krizia tra le mie sussurrandole con la voce rotta dall’emozione tutta la mia stima e tutta la mia gratitudine.
Ricordo perfettamente che, davanti alla mia emozione, lei mi ha guardata quasi meravigliata come se il suo pensiero fosse “ma no, dai, per me?”. E mi ha sorriso.
Sì, per lei, Signora Mariuccia. E glielo dico ancora oggi, le dico grazie un milione di volte.
Non la dimenticherò mai, non dimenticherò mai quel nostro piccolo momento per me così importante.
E non dimenticherò che, fin dagli anni ’60, insieme ad un pugno di altri grandi stilisti e anticipatori del made in Italy, lei partì alla conquista del mondo con la sua moda fatta di lamé plissettato, shorts, costruzioni geometriche e un bestiario nel quale brillava la pantera, animale del quale fece il suo portafortuna nonché uno dei suoi motivi iconici, spesso presente, stampato o ricamato, su maglie e abiti.
Dicono che Mariuccia Mandelli non avesse un carattere facile e pare che il soprannome Crazy Krizia le fosse stato attribuito non solo per la capacità di anticipare o meglio sovvertire le tendenze portando tante innovazioni, ma anche per il carattere volitivo e tutt’altro che morbido: le sue sfuriate erano famose, ma altrettanto noti erano i suoi slanci di generosità nonché l’impegno costante e in prima linea per fare di Milano la capitale del made in Italy.
Chi la conosceva bene la descriveva come una persona forte, battagliera, difficilmente addomesticabile (soprattutto dalle false lusinghe) e non asservita, ironica, indipendente e dotata di uno spirito imprenditoriale da vera pioniera. Qualcuno dice anche che talvolta risultasse schiva fino all’antipatia.
Greta Vittori, addetta all’ufficio stampa di Krizia dal 2003 al 2007, in un’intervista rilasciata a FashionTimes, descrive la Signora Mandelli come “una donna che si è ritagliata un pezzo di storia, andava contro corrente, una donna che non aveva paura di dire le proprie idee, una donna di cultura, antesignana” e dice anche che “aveva la capacità di farti sentire in paradiso, amata, coccolata, rispettata, ascoltata, e con la stessa capacità ti faceva scendere all’inferno”. “Una mosca bianca in un mare di fatiscenza e conformismo”, conclude.
In una recente intervista al Sole 24 Ore, la stessa Mariuccia Mandelli aveva fatto una dichiarazione schietta e senza peli sulla lingua, come sempre: “La mia donna è libera, capace di divertirsi con quello che indossa. Non ho mai avuto delle icone femminili, dei modelli. Purtroppo oggi c’è troppa tendenza a cercare approvazione, si cerca di essere trendy, ma credo che quando si cerca di esserlo si è già fuori dalla moda”.
Penso che in questa frase ci sia l’essenza di quel suo carattere definito non facile, del suo andare contro corrente, del suo coraggio di essere fedele alle proprie idee.

Ho riletto l’articolo che scrissi nel 2013, dopo il nostro incontro: riporto alcune delle parole che scrissi in quella occasione e che penso ancora, oggi più che mai.

“Ci sono nomi ai quali ci si deve approcciare con tutto il grande rispetto che meritano. E con l’emozione necessaria.
Uno di questi casi, per me, è quello di Krizia: è stato grazie a lei e a pochi altri che, tanti anni fa, mi sono innamorata irrimediabilmente e incurabilmente di quell’Arte che è la Moda – e in questo caso lo scrivo con la M maiuscola.
(…) Vorrei dire una cosa a tutti gli stilisti, giovani e meno giovani, e ai loro uffici stampa: questa è una Signora, questa è una Signora che il pubblico ama e amerà e che è e resterà un mito e un’icona.
Per entrare nel mito non serve fare gli spocchiosi, atteggiarsi a esseri divini, rendersi irraggiungibili, trattare le persone con sufficienza, perché entrare nel mito non è un evento che si può progettare a tavolino: sono gli altri a riconoscerci la grandezza, se e quando c’è. Il vero talento, il duro lavoro, l’autentica passione: sono questi gli ingredienti che contano nel tempo e che fanno sì che uno stilista o una maison non siano una moda passeggera destinata a durare solo il susseguirsi di poche stagioni.
La mia non è una polemica, è solo la considerazione di una persona che non scorderà mai di aver stretto la mano a una delle sue Maestre e che non scorderà mai la semplicità con cui lei si è donata. Vi prego, prendete appunti e non per me né per altri bensì per il bene e per l’amore di quella Moda che voglio scrivere ancora una volta con la M maiuscola.
(…) Grazie Signora Mandelli. Con tutto il mio cuore.
Per la bellezza che ha sparso per il mondo, per ciò che mi ha insegnato, per avermi regalato il momento più emozionante della giornata e sicuramente di tutta la settimana della moda. L’istantanea che porterò nel cuore, per sempre.”

È l’istantanea che porto nel cuore oggi, sì, e – in mezzo a questa onda di dispiacere – mi consola un pensiero.
A fianco a lei, alla Signora Mariuccia, domenica sera c’era il marito, l’uomo che le è stato accanto nel privato e sul lavoro per 50 anni e fino all’ultimo momento.
Proprio come quel giorno in cui l’ho conosciuta io.
A lui, al Signor Pinto, va il mio cordoglio per la perdita della compagna della vita.

Manu

I miei piccoli ricordi: la foto in alto, opera del mio amico Andrea, ritrae la Signora Mariuccia Mandelli e la sottoscritta il 19 settembre 2013 (tengo molto a questa immagine, tant’è che da allora è presente nello slider in home page del blog); l’articolo che ho scritto il 4 ottobre 2013; le foto che ho fatto in occasione della mia prima sfilata Krizia del 20 settembre 2012 e una delle foto di Mariuccia Mandelli al termine di quella sfilata.
Mi fa piacere dare il link dell’intervista rilasciata da Greta Vittori a Fashion Times.
E concludo col link di uno splendido articolo datato 11 agosto 2012: la giornalista Angela Puchetti racconta la storia d’amore tra Mariuccia Mandelli e Aldo Pinto.

Non avrete il mio odio, parola di Antoine Leiris

“Non avrete il mio odio.

Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo, siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore.

Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. L’avete accuratamente cercato ma rispondere all’odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con diffidenza, che sacrifichi la mia libertà per la sicurezza. Avete perso. Lo stesso giocatore gioca ancora.

L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Naturalmente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di breve durata. So che lei ci accompagnerà ogni giorno e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai.

Siamo in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere felice e libero. Perché no, voi non avrete nemmeno il suo odio.”

Ho letto tante parole sui fatti di Parigi di venerdì 13 novembre e ne ho scritte a mia volta.
Antoine Leiris scrive ai terroristi che hanno ucciso sua moglie e decine di persone al teatro Bataclan: dai commenti presenti sotto lo scritto pubblicato su Facebook, apprendo che la moglie si chiamava Hélène.
Ho voluto condividere queste parole e perdonatemi se da qui in poi scelgo il silenzio: qualsiasi mia ulteriore aggiunta sarebbe del tutto inutile e fuori luogo.
Quest’uomo ha dato voce agli unici pensieri che davvero meritassero di essere espressi.

Manu

#PrayForParis, #PrayForWorld

Sono colma di pensieri in ordine sparso. Spettinati, direbbe una mia cara amica.
Provo paura, orrore, sconforto, angoscia, confusione, smarrimento, dolore, preoccupazione, inquietudine.
Provo altri sentimenti densi e vischiosi ai quali non riesco nemmeno a dare un nome.
Da venerdì sera ascolto le notizie in TV, leggo quelle sul web.
“Non capisco ma queste cose sono difficili da capire, fatte da esseri umani”, dice Papa Francesco in una telefonata con Tv2000: le sue parole e la sua sofferenza che si può quasi toccare mi impressionano profondamente.
“Invito tutti a superare la paura”, dice il presidente francese, François Hollande.
Leggo ovunque frasi tipo “Vedo umani ma non vedo umanità”.
Qualcuno parla di Terza Guerra Mondiale e a me torna in mente una frase di Albert Einstein: “Non so con quali armi verrà combattuta la Terza Guerra Mondiale ma la Quarta verrà combattuta con clave e pietre”. Quand’ero ragazzina, queste parole mi terrorizzavano e oggi mi fanno un effetto del tutto simile.
Credo, però, che nemmeno il grande scienziato avrebbe potuto immaginare lo scenario odierno: la guerra che in effetti sembra essere in atto non conosce un fronte. È ovunque e mina ogni nostra certezza: non esiste rifugio, non esiste luogo che possa dirsi assolutamente sicuro. Le strade sono come trincee, luoghi insospettabili come uno stadio o una sala da concerti possono diventare campi di battaglia.
Penso ai parigini che venerdì notte hanno aperto le loro case a chi non aveva modo di rientrare nella sua. Penso che, ancora una volta, hanno dimostrato di credere veramente in quel Liberté, Égalité, Fraternité nato con la Rivoluzione Francese e in seguito diventato motto della loro patria.
Su Facebook, ieri mattina, ho scritto “Svegliarsi con un unico pensiero: verificare che tutti coloro che conosco e che sono a Parigi stiano bene… Il cuore deve trovare modi per sopravvivere all’orrore…”
E anche “La bellezza salverà il mondo. Cerco di crederci anche in questo sabato di angoscia e orrore per la nuova strage di Parigi.”
Stamattina, invece, mi sono alzata avendo in testa un’immagine ben precisa della capitale francese. È la foto che vedete qui sopra, un mio scatto datato agosto 2014 e realizzato affacciandomi dalle finestre del Musée des Arts Décoratifs.
Chissà perché, tra centinaia di scatti dei miei tanti soggiorni a Parigi, ho pensato proprio a questa foto. Non so di preciso perché, ma ho voluto dare ascolto al mio subconscio scegliendo l’immagine emersa dalle nebbie dei sogni agitati di stanotte.
Sapete, quando il mondo mi fa paura, cerco rifugio nella bellezza. A qualcuno potrà sembrare stupido, ma è il mio lavoro e soprattutto è l’unico modo che conosco per portare avanti i valori di cultura, civiltà, umanità, tolleranza e libertà nei quali credo da sempre.
E forse – ripensandoci meglio – capisco perché il mio subconscio mi abbia suggerito proprio la foto qui sopra: la Tour Eiffel vista dal Musée des Arts Décoratifs diventa un simbolo, quello della bellezza e del progresso visti attraverso la prospettiva offerta dalla cultura. E la bellezza, il progresso, la cultura, la civiltà e la libertà sono le luci che ancora spero possano illuminare il buio dell’ignoranza, dell’odio, dell’oscurantismo, del sonno della ragione, della bieca disumanità.
L’odio, il sangue, la paura non devono e non possono vincere. Certo, dolore e paura sono assolutamente legittimi, oggi, e ammetto che resistere alla tentazione dell’odio non è facile, eppure credo che dovremmo farlo, dovremmo resistere.
Credo che non dovremmo abbandonarci all’odio perché sono d’accordo con una frase che ho letto: “Chi odia è già morto”.
Non ho mai preteso di possedere né di dispensare la verità anche perché credo che nessuno possegga o detenga la verità assoluta: vi sto raccontando il mio punto di vista. Questo è il mio modo di reagire. È la mia risposta. Sono i miei pensieri spettinati che ho voluto condividere con voi come se ragionassi a voce alta.
E vi dirò di più: oggi mi sento un po’ illusa se ripenso alle mie parole di speranza dello scorso gennaio dopo l’attacco a Charlie Hebdo. Ripeto di sentirmi paralizzata, piena di dubbi e di interrogativi.
Eppure, da domani, così come chiede Hollande, cercherò di superare la paura.
Raccatterò le mie poche certezze, i miei tantissimi dubbi e la mia infinita voglia di andare avanti e tornerò a sperare. A lavorare e a vivere nel modo in cui so farlo. A onorare i valori nei quali credo. Senza odio.
Credo che questa sia la risposta migliore da dare a chi vuole portare avanti e diffondere una guerra maledetta che rischia davvero di riportarci a clave e pietre.
Manu

#PrayForParis
#PrayForWorld

Unoaerre, un museo (letteralmente) d’oro

Sono fermamente convinta di un fatto: le cose più belle sono spesso quelle che non ci aspettiamo e che non programmiamo.
Lo scorso week-end, per esempio, sono stata vicino ad Arezzo insieme a Enrico, mio marito, per sostenerlo in una delle sue grandi passioni: il modellismo.
Nella bella città toscana, ho delle amiche preziose le quali, saputo del mio arrivo, si sono adoperate per farmi vivere alcune esperienze davvero deliziose. Agnese, una di loro, è stata così gentile e premurosa (leggere: fantastica) da far sì che potessimo visitare il museo di UNOAERRE, importante azienda che non ha bisogno di molte presentazioni.
Non solo: la visita è avvenuta sotto la guida di Giuliano Centrodi, direttore, curatore e conservatore del museo nonché modellista storico di UNOAERRE.
Come avrei potuto immaginare che, un fine settimana pensato ad hoc per la mia dolce metà, si sarebbe trasformato in qualcosa di interessante per le mie attività e che sarei entrata in un luogo importantissimo per la tradizione orafa? Ecco perché dico che le cose inaspettate sono le più belle.
Arezzo è uno dei poli italiani dell’oro insieme a Valenza e Vicenza: la storia di UNOAERRE inizia il lontano 15 marzo 1926 grazie a Carlo Zucchi e Leopoldo Gori, i due fondatori dell’azienda.
Forse non tutti sanno che, fino a inizio ‘900, in Italia i gioielli erano punzonati unicamente per attestare la veridicità del metallo, ma non recavano il marchio di chi li aveva prodotti: il vero marchio orafo che garantisce il titolo e certifica anche il produttore nacque come idea durante il ventennio fascista.
Perché vi sto raccontando questa cosa? Perché è strettamente legata alla storia e al nome dell’azienda: il 2 aprile del 1935, la Gori & Zucchi ricevette infatti il primo marchio della provincia di Arezzo, ovvero 1AR. Tale marchio scritto per esteso (UNOAERRE) è diventato a tutti gli effetti il nome alla società.
In quasi 90 anni, varie generazioni di orafi, tecnici, maestri e artisti hanno costruito, sviluppato, consolidato e fatto conoscere una realtà economica ancora oggi unica al mondo: l’azienda arrivò ad avere più di 1500 dipendenti negli anni ’60 e, proprio tra gli anni ’50 – ’60, le fu riconosciuto il ruolo di zecca e dunque fu autorizzata a battere valuta in corso legale. Lo fece per più di 90 paesi tra i quali il Regno Unito.
Non c’è praticamente paese dove non sia giunto un gioiello UNOAERRE e oggi l’azienda vanta una distribuzione in oltre 40 stati con filiali dirette in Francia e Giappone: in Italia è il marchio leader nel mercato delle fedi nuziali aggiudicandosi una fetta del 70%.
UNOAERRE è dunque una nostra gloria della quale essere giustamente orgogliosi: nel 1988, l’azienda ha inaugurato il suo museo fondato con l’intento di non disperdere la memoria storica e di offrire un percorso espositivo che parte dalla cosiddetta archeologia industriale (i macchinari d’epoca).
La collezione comprende oltre 2000 opere tra disegni originali, pezzi di oreficeria, gioielli e diversi pezzi unici: sono per esempio rappresentati gli anni ’20 (con gli ultimi bagliori della Belle Époque e dello stile ghirlanda tipico del periodo), l’Art Déco col suo stile dal sapore geometrico e i gioielli autarchici degli anni ’30, fatti in argento, rame e vetri colorati. Il tutto narra con efficacia una storia che è ancora viva ed attuale grazie ad un continuo aggiornamento con i gioielli più rappresentativi delle collezioni contemporanee: per questo il museo può essere considerato come un patrimonio presente e futuro di arte e cultura orafa.
A me è piaciuto proprio questo, ovvero il fatto che l’esposizione appaia straordinariamente viva: sicuramente il merito va anche a Giuliano Centrodi e alla sua straordinaria conoscenza e memoria. Pensate che è entrato in azienda nel 1963 quando era un giovane e promettente studente di soli 18 anni: oltre ad essere stato direttore artistico di UNOAERRE e ad essere oggi curatore del museo, ha insegnato presso l’Università di Firenze.
Sono onoratissima di averlo conosciuto e di aver ascoltato un pezzo di storia raccontato con vigore, eleganza e passione.
Tra i tantissimi pezzi del museo, sono rimasta affascinata proprio dai gioielli autarchici di epoca mussoliniana e dalle testimonianze della campagna detta Oro alla patria (il dono degli oggetti in oro e soprattutto delle fedi matrimoniali sostituite da esemplari in ferro che venivano date a coloro i quali facevano la donazione, uno dei momenti più impressionanti del consenso al regime fascista favorito da una martellante opera di propaganda): ho amato anche i bellissimi pezzi del grande Giò Pomodoro, autentiche sculture da indossare.
Se amate la bellezza, il saper fare, la capacità, la fantasia, la creatività, il made in Italy e se amate la storia, vi raccomando una visita a questo bellissimo museo che è un autentico gioiello. Letteralmente.

Manu

Il museo (situato presso la sede dell’azienda in Località San Zeno Strada E al civico 5, Arezzo) è visitabile su prenotazione, telefono: 0575 9251, e-mail info@unoaerre.it
Qui trovate la pagina Facebook di UNOAERRE

Vi lascio con la gallery delle foto che ho scattato in occasione della visita di sabato scorso. Le ultime due sono opera di Grazia, una delle mie amiche: la prima mi ritrae con Giuliano Centrodi, mentre la seconda ritrae noi tre, Grazia, la sottoscritta e Agnese. Un grazie speciale ad Agnese e Grazia

Altrove secondo Ridefinire il Gioiello

Ho parlato spesso di Ridefinire il Gioiello, il bellissimo progetto curato da Sonia Catena, bravissima storica e ricercatrice d’arte esperta in design del gioiello contemporaneo: a giugno, avevo lanciato il bando del nuovo concorso annunciando che, così com’era già accaduto per l’edizione 2014, anche quest’anno sarei stata media partner del concorso attribuendo un premio a un vincitore da me scelto.
Dal 2010, Ridefinire il Gioiello promuove la creatività e ha come obiettivo la diffusione e la valorizzare di una nuova estetica del gioiello contemporaneo tramite la ricerca di materiali innovativi e sperimentali: nel corso degli anni, il progetto ha coinvolto più di 2.000 creativi tra artisti, designer e orafi che hanno spinto la loro ricerca ben oltre i confini usuali.
Per l’edizione 2015, il concorso è andato nella stessa direzione di Expo, la grande manifestazione che ha portato a Milano il tema del cibo tra cultura, colori e tradizioni: così come lo sa fare il cibo, anche abbigliamento e monili sono in grado di raccontare luoghi e popoli e dunque il tema e la sfida sono stati proprio questi, riuscire a creare un Gioiello dell’Altrove in grado di racchiudere in sé l’esperienza del lontano e dello sconosciuto. D’altro canto, il gioiello ha sempre raccontato e documentato usi e costumi, spesso con una valenza sociale e antropologica.
Le candidature arrivate sono state moltissime e le selezioni sono terminate il 15 settembre: giovedì sera, è stata inaugurata la fase espositiva.
La prima tappa si svolge fino a sabato 31 ottobre al MUMI: l’Ecomuseo di Milano ospita i 51 pezzi selezionati, creati da altrettanti artisti. La mostra è inoltre arricchita da un interessante programma di workshop, incontri e performance musicali, eventi tutti legati al tema del viaggio e delle sue implicazioni.
Vi segnalo tre degli eventi in calendario: la mostra “Frammenti d’Etiopia, il Sud e Harar” della fotografa Chiara Del Sordo, un’affascinante rappresentazione del paese africano attraverso colori, volti e situazioni di una realtà lontana; il workshop di artigianato artistico di sabato, dalle ore 17; e infine “Una pausa a colori” di Martino Vergnaghi, spettacolo che racconta i dipinti di Kandinsky, Van Gogh e Rousseau attraverso musica e dialoghi che rievocano i viaggi – reali o immaginari – di questi grandi pittori (sabato alle ore 19).
Giovedì sera, ho avuto il grande piacere di partecipare alla serata inaugurale annunciando non una bensì tre vincitrici: il tema è stato molto ben sviluppato da tutti i partecipanti e ho voluto estendere ad altre due persone il mio premio che consisterà in monografie dedicate qui su A glittering woman. Si partirà con la vincitrice assoluta e se siete curiosi vi invito a continuare a leggere il blog.
Intanto, non voglio influenzarvi e non anticipo nulla, andate a vedere voi stessi questa prima tappa dell’esposizione: troverete molti spunti tutti sviluppati in maniera estremamente personale.
E se non potete andare, vi segnalo già la seconda tappa: dopo le tre giornate al MUMI, la mostra proseguirà in un’altra sede milanese. L’appuntamento è presso Circuiti Dinamici, in via Giovanola 19/21, dal 15 al 28 novembre.
Continuerò a tenervi informati circa le successive tappe di questo progetto itinerante: il viaggio non finisce.

Manu

Ridefinire il Gioiello 2015 – Il Gioiello dell’Altrove
MUMI – Ecomuseo di Milano
Alzaia Naviglio Grande 16, Milano
La mostra resterà aperta nelle giornate del 29-30-31 ottobre dalle 10 alle 20
Col patrocinio di Regione Lombardia, Comune di Milano, ExpoinCittà, Consiglio di zona 5, Consiglio di zona 6, Accademia di Brera

Qui trovate il sito del MUMI e qui la pagina Facebook.
Qui trovate il sito di Ridefinire il Gioiello, qui la pagina Facebook e qui Twitter.
Qui trovate la photogallery dell’evento di inaugurazione (dalla quale è tratta la foto in alto).
Io & Ridefinire il Gioiello: qui trovate il mio articolo sul bando di concorso 2015, qui quello sulla manifestazione 2014 e qui quello su Alessandra Vitali, la designer che ho deciso di premiare lo scorso anno.

I risvolti imprevisti della collezione Balmain x H&M

Haute Couture, prêt-à-porter, fast fashion: la lotta tra le varie visioni della moda è in corso ormai da tempo.
A dare un notevole colpo alla questione è – da parecchi anni – il colosso svedese H&M: alzi la mano chi può dire in tutta sincerità di non aver MAI comprato un capo di uno dei protagonisti assoluti del fast fashion.
Nato in Svezia nel 1947 e detentore di 3.733 negozi in tutto il mondo al 30 settembre 2015 (dati ufficiali), il marchio H&M porta avanti una filosofia ben precisa riassumibile in «la moda non è una questione di prezzo».
Fin dal 2004, ha concretizzato questa idea in una serie di capsule collection o forse è meglio dire limited edition, ovvero campagne speciali con stilisti di fama mondiale e style icon: tra i nomi, figurano Karl Lagerfeld (il primo), Stella McCartney, Elio Fiorucci, Roberto Cavalli, Rei Kawakubo, Comme des Garçons, Jimmy Choo, Lanvin, Versace, Marni, Maison Martin Margiela, Alexander Wang (lo scorso anno). E scusate se è poco.
Il gruppo H&M è diventato così maestro assoluto nel masstige, termine che nasce dalla contrazione di mass market e prestige: è una strategia di co-branding che riprende le leve del marketing di lusso (valore estetico e qualitativo) abbassando però la leva del prezzo e spingendo piuttosto sul valore della percezione simbolica, ovvero sul richiamo e sul fascino esercitato da una determinata maison o da un determinato brand. H&M, ripeto, può considerarsi maestra e direi antesignana in tutto ciò con un sold out praticamente immediato per ogni collezione di co-branding come quasi nemmeno un concerto di Justin Bieber.
Ora è arrivato il turno della collezione Balmain x H&M: comprende abbigliamento e accessori per uomo e donna e sarà disponibile a partire dal 5 novembre in alcuni punti vendita selezionati e sul sito. La collaborazione firmata da Olivier Rousteing, direttore creativo della maison francese dal 2011, ha debuttato il 20 ottobre a New York, naturalmente alla presenza di celebrity, it-girl e modelle che si sono mescolate agli esponenti della stampa specializzata (nella foto in alto, Olivier Rousteing, Kendall Jenner e Gigi Hadid si divertono al party – fonte sito H&M).
Fin qui – probabilmente – non vi ho detto nulla di nuovo e forse vi state domandando se io stia per dirvi che andrò a fare la fila all’alba fuori dal negozio meneghino di piazza Duomo (no, non ci andrò, forse darò una sbirciata sul sito, magari a qualche bijou) oppure se voglia lanciarmi in una presentazione minuziosa dei capi della collezione.
Nulla di tutto ciò: non mi interessa entrare nelle discussioni (già accese) tipo «ma lo spirito di questa collezione è autenticamente Balmain?» né vi dirò se a me piace né se apprezzo o meno il masstige. Strano ma vero, stavolta sono interessata ad altro, non ai contenuti specifici (dovrò preoccuparmi per me stessa?) bensì a un contorno, a un risvolto collaterale ben preciso, sicuramente imprevisto e a mio avviso illuminante.
Dovete sapere che è successa una cosa: in netto anticipo su tutti, persino sul colosso del low cost, lo scorso 5 ottobre la redattrice e scrittrice di Chicago Kathryn Swartz Rees ha condiviso sul proprio account Instagram ben 99 scatti di accessori, borse, abiti e scarpe della collezione.
Non si è trattato di un attacco hacker, ma di una semplice ricerca su Google fatta «con i parametri giusti, il sito di H&M è stato indicizzato da Google e mi è capitato di cercare al momento giusto». Così ha detto Kathryn e se volete sapere tutto in dettaglio, potete leggere qui il suo racconto.
Ovviamente, in H&M non sono stati particolarmente felici e hanno chiesto a Kathryn di rimuovere le foto, cosa che lei – gentilmente – ha fatto. Incidente chiuso.
Ecco, il mio interesse verso questa collezione rientra tutto in tale episodio che è la dimostrazione di come, attraverso il grande web, nulla sia più riservato, nemmeno se in ballo ci sono enormi interessi economici e nemmeno se gli attori protagonisti sono aziende importanti che certamente ben sanno come si fanno certe cose.
Perché la verità è che, nel momento in cui mettiamo qualcosa in rete, quel qualcosa cessa di essere nostro e in qualsiasi momento e in qualsiasi modo qualcuno può arrivare al nostro tesoro. Non importa quale livello di privacy crediamo di aver impostato né importa quale sia lo scopo di chi viola i nostri contenuti, dalle intenzioni più fraudolente alla semplice curiosità magari un po’ morbosa.
Questo episodio è, secondo me, un ottimo promemoria. Per tutti.
Direte voi: e lo dici proprio tu? Sì, amici miei, perché nonostante il web sia il mio lavoro, nonostante abbia questo blog, nonostante sia fortemente presente su svariati social network, di questa cosa sono in realtà ben conscia e da sempre cerco di adottare l’unica strategia a mio avviso possibile: se non voglio fare sapere una cosa non la metto in rete, nemmeno con un livello di privacy pari a quello della NASA e nemmeno dietro un milione di password, perché so perfettamente che da qualche parte ci sarà sempre qualcuno in grado di abbattere tutto ciò.
Non credete a me? Guardate l’esempio H&M e guardate un video che desidero condividere da tempo e che, ora, cade proprio come il cacio sui maccheroni – come si suol dire.

Detto tutto ciò, prometto che dal prossimo post si torna a parlare di moda pura, senza risvolti imprevisti.
E se qualcuno andrà a fare la fila da H&M mi faccia poi sapere le sue impressioni: ho dato l’incarico a una delle studentesse del mio nuovo corso di Fashion Web Editing in Accademia Del Lusso, ma chissà se mai se ne ricorderà nel mezzo della frenesia da Balmain.

Manu

Hôtel Barrière Le Majestic e il sogno di un inverno vista mare

Amo molto l’autunno: mi sono sempre piaciuti i suoi colori, mi è sempre piaciuto camminare sui tappeti di foglie gialle e rosse, mi è sempre piaciuta l’atmosfera un po’ ovattata e intima che questa stagione porta con sé.
Apprezzo perfino l’abbigliamento autunnale, quei capi morbidi che mi fanno sentire coccolata, né troppo scoperta come mi sento d’estate né troppo imbacuccata come avviene invece d’inverno.
Non sopporto invece l’inverno: appena l’aria autunnale inizia a lasciare il passo al primo gelo invernale… io mi sento morire e provo la voglia di scappare.
Dove? Al mare, che domanda! La mia passione per il mare è enorme e sono tra coloro che amano il grande fratello blu in qualsiasi stagione e in qualsiasi condizione atmosferica: a qualcuno il mare d’inverno mette malinconia, ma a me no, per me il mare è vita, sempre, 365 giorni all’anno e anche 366 se è bisestile.
Prendete, per esempio, quello che mi è successo venerdì: ho preso un treno per andare a Lucca per una riunione di lavoro e (malauguratamente, non lo farò mai più) ho scelto un treno Intercity che ha percorso tutta la costa ligure prima di arrivare in Toscana. Mi sono venuti i capelli bianchi sia per la lentezza sia per il vergognoso ritardo (quasi 50 minuti) del treno, ma di una cosa sono stata felice: poter godere del meraviglioso panorama offerto dal mare con l’aiuto di una stupefacente giornata, tiepida e soleggiata nonostante si avvicini ormai la fine di ottobre. Che meraviglia! Il cuore mi si è riempito di tutto quel blu (nonostante dentro di me crescesse un rancore infinito verso Trenitalia).
E così, oggi, in una domenica di (parziale) relax, mi è venuta voglia di raccontarvi di un’esperienza vissuta un paio di settimane fa: durante un pranzo al bellissimo Four Seasons di Milano (una delle oasi felici della mia città), mi è stato presentato il programma invernale di un altro bellissimo hotel situato in Costa Azzurra.
L’Hôtel Barrière Le Majestic si trova a Cannes e gode di una posizione invidiabile, proprio sul mare: grazie a un’offerta che va dal 1° novembre 2015 al 31 marzo 2016, è possibile programmare un inverno vista mare.
Il Barrière Le Majestic offre infatti un’interessante possibilità: tutte le prenotazioni relative a una camera vista città godranno di upgrade gratuito in camera vista mare (con esclusione dei periodi di congressi e festival). L’impatto economico non è indifferente, ve l’assicuro.
Se come me siete degli amanti del mare e in particolare della Costa Azzurra, questa è un’ottima occasione, un regalo da fare e da farsi: tra l’altro, il clima di questa zona è generalmente mite anche d’inverno.
Ne sono una dimostrazione certi manifesti d’epoca che proclamavano “l’inverno supera l’estate in Costa Azzurra” oppure le parole di Paul Morand, scrittore e diplomatico che di Cannes diceva “una delle più felici invenzioni dell’uomo in collaborazione con gli Dei dell’Antichità che si sono ritirati a vivere sulla Croisette”.
Al Barrière Le Majestic, la magia permanente di Cannes si può assaporare grazie alle finestre e ai balconi affacciati sul Mediterraneo, godendo della luminosità del cielo, dell’azzurro del mare, delle file di palme presenti da oltre un secolo e mezzo, della vista sul Massiccio dell’Esterel e sulle Isole di Lérins, autentiche perle della baia.
Tra l’altro, dopo la realizzazione nel 2010 dell’ala ovest, l’albergo ha completato il restyling delle camere e dei bagni per aggiungere un tocco di modernità a un palazzo centenario, fiore all’occhiello del savoir-faire alla francese in tema di accoglienza.
Ora, io non vorrei apparire troppo sfacciata, ma se (mio marito) qualcuno (più discreto…) leggesse questo piccolo post e lo collegasse al fatto che il mio compleanno cade proprio durante questo periodo di offerte e visto che quel qualcuno ben conosce la mia avversione per l’inverno, avversione inversamente proporzionale al mio amore per il mare… non so, ecco, un salto a Cannes potrebbe essere un cadeau particolare (e apprezzato).
Come si dice? A buon intenditore poche parole 😉

Manu

Se volete saperne di più (o se volete anche voi che la vostra metà ne sappia di più), qui trovate il sito del Barrière Le Majestic e qui la pagina Facebook.

Qui sotto trovate la gallery con le foto che ho realizzato alla presentazione presso il Four Seasons Hotel di Milano: nell’ultima foto, ci sono Barbara Lovato e Frédéric Meyer (rispettivamente Responsabile Ufficio Stampa e Direttore di Atout France Italia) con Fabienne Buttelli (Responsabile Ufficio Stampa Hôtel Barrière Le Majestic).

Verso il Benessere Biologico con Nvk Design

Benessere biologico: a cosa vi fanno pensare queste due parole?
Sabato 3 ottobre ho partecipato a una interessante manifestazione intitolata proprio così: sapori genuini, linee armoniose, materiali innovativi e pensieri positivi hanno accompagnato tutti i partecipanti in un viaggio teso verso la ricerca del benessere interiore ed esteriore nonché dell’equilibrio fisico e mentale.
Per me, vivere bene (e sano) significa affrontare la vita con energia cogliendo le opportunità migliori: giorno dopo giorno, mi sto rendendo conto di quanto sia necessario farlo nel pieno rispetto della vita stessa.
La kermesse Il Benessere Biologico si è posta proprio questo obiettivo, affrontando in modo scientifico ma anche piacevole e divertente le infinite sfaccettature della questione: chef, medici nutrizionisti, biologi, esperti in cosmesi naturale, bio-architetti e stilisti impegnati in una moda eco-sostenibile si sono confrontati in tanti appuntamenti distribuiti nel corso di tutto il week-end.
Qual è stato il mio ruolo? Scommetto lo immaginate già: ho partecipato alla tavola rotonda sulla moda.
Nel panel in questione, esperti e professionisti hanno parlato di eco-sostenibilità in un dibattito condotto e moderato dalla giornalista Fabiana Giacomotti.
Forse stenterete a crederlo, ma – per una volta – mi sono limitata a essere una testimonial silenziosa: insieme alle colleghe Anita Pezzotta (del blog La Vie c’est Chic) e Clara Nanut (del blog Gourmode), ho fatto da modella allo scopo di mostrare le creazioni della designer Natasha Calandrino Van Kleef, la fondatrice del marchio Nvk Design.
Perché utilizzare tre blogger, tre donne differenti per età, fisicità e stile di vita sebbene unite da una comune passione per la moda? Esattamente per questo (ottimo) motivo, ovvero per far scendere i capi dalla passerella e farli vedere indossati da donne che non sono modelle professioniste.
Parlando di Nvk e della chiacchierata che ho comunque fatto con Natasha, inizio a raccontarvi che il tessuto utilizzato per tutte le sue collezioni è il modal – più precisamente il micromodal.
Si ottiene dalla polpa di legno degli alberi, non si sfibra e, rispetto al cotone, si restringe e scolorisce più difficilmente: è liscio e soffice tanto che viene spesso aggiunto proprio al cotone per migliorarne le qualità.
Il modal ha altre due importanti caratteristiche: è anallergico ed è traspirante. Quindi, d’estate non trattiene l’umidità e non ci fa sudare, mentre d’inverno ci aiuta a trattenere il calore del nostro corpo.
Posso affermare che è un tessuto che accarezza la pelle: in particolare, i capi pensati da Natasha si avvolgono attorno al corpo in modo semplice e al contempo raffinato, risultando adatti a ogni occasione. Sono compagni ideali per i viaggi e sono pratici da tenere in borsa e in valigia perché sono resistenti agli stress.
La designer crea anche una linea di costumi da bagno: naturalmente, proprio per le caratteristiche intrinseche del modal, i costumi risultano confortevoli e molto igienici. Vale la stessa cosa per alcune proposte di intimo e non mancano capi da uomo e per i bambini.
Prodotti esclusivamente in Italia in un laboratorio a impatto ambientale zero (per compensare le emissioni di CO2 derivate dai processi di manifattura sono stati piantati alberi in una zona boschiva nel territorio pavese), i capi Nvk sono realizzati in singolo o doppio strato di solo modal: non c’è utilizzo di parti plastiche o metalliche e gli elastici sono in gomma naturale. Torno a sottolineare che il modal è anallergico e il fatto che non siano presenti altri materiali annulla completamente il rischio allergie: attraverso i tagli ben studiati, Natasha riesce infatti a non utilizzare né cerniere né bottoni né ganci.
I capi doppiati hanno un ulteriore vantaggio: sono reversibili.
Aggiungo altri due dettagli accattivanti.
Il primo piacerà a tutte le donne che hanno poco tempo (alzo la mano per prima): i capi possono essere tranquillamente lavati in lavatrice con acqua fredda e non è necessario stirarli.
Il secondo piacerà a tutti i più convinti sostenitori dell’ecologia: non solo la manifattura è a impatto zero, come ho raccontato, ma anche lo smaltimento è altrettanto sostenibile. Essendo interamente in modal, i capi possono essere smaltiti senza la necessità di costose operazioni di separazione dei vari componenti. Per la gioia degli animalisti, anche l’uso di pelle e pelliccia è completamente bandito.
Avendole indossate, posso testimoniare che le creazioni Nvk sono molto morbide e piacevoli: accompagnano perfettamente il corpo assecondando le forme di ogni donna.
Mi piace essere onesta e ho sempre ammesso che non tutte le mie scelte sono eco-sostenibili: è però la direzione verso la quale desidero andare e che scelgo sempre più spesso. Mi piace pensare al mio come a un percorso verso quel benessere del quale ho parlato in principio e verso una conoscenza – e una coscienza – sempre più profonda ed estesa.
Sono dunque molto felice di aver conosciuto Natasha e vi invito ad approfondire l’argomento attraverso i suoi canali social: qui trovate il suo sito e qui la sua pagina Facebook. Troverete anche una proposta per la sposa.

Manu

Se volete restare informati circa la manifestazione Il Benessere Biologico (sono certa che ci saranno successive edizioni), qui trovate il sito e qui la pagina Facebook. La kermesse è stata inserita nel progetto ExpoinCittà.

Nella foto in alto, da sinistra: Anita Pezzotta, la stilista Natasha Calandrino Van Kleef, Clara Nanut e la sottoscritta. Indossiamo tutte capi Nvk Design creati da Natasha: in particolare, io e le mie colleghe Anita e Clara indossiamo capi della collezione autunno/inverno fatti in doppio strato di modal e reversibili.

A Milano c’è un giardino incantato

La foto ufficiale della mostra – ph. credit Davide Cappelletti

“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”
In molti l’avranno già riconosciuta: è una delle frasi che William Shakespeare fa dire a Giulietta nel secondo atto della sua tragedia più famosa.
Queste parole hanno sempre colpito la mia fantasia e mi sono tornate in mente quando il mio amico Pierangelo Tomaselli mi ha sottoposto un progetto nato dalla sua collaborazione col fotografo Davide Cappelletti.
Si tratta di una mostra che racconta lo scorrere del tempo in un giardino incantato: attraverso oltre 100 foto scattate con molta pazienza nell’arco di sei mesi, sono state create delle sequenze che mostrano la vita dei fiori in momenti differenti per orario, stagione e condizioni atmosferiche.
È il tempo, quindi, il filo conduttore, il tempo come artefice del divenire e come forza trasformatrice capace di agire sui fiori, autentici protagonisti che vengono ritratti dal miracolo dello sbocciare fino alla poesia dolcemente malinconica del loro appassire.
Davide Cappelletti, milanese, classe 1971, non scatta semplici fotografie: parla attraverso la luce e i colori e lo fa mettendoci anima e cuore. Nei suoi lavori, si ispira ai primissimi fotografi e alla loro visione: essi si riproponevano di dare alla fotografia quella manualità e quel senso estetico tali da elevarla allo status di opera d’arte al pari di pittura e scultura. (Piccolo inciso: guardate la foto qui sopra… Secondo me, Davide riesce magnificamente a raggiungere il suo intento.)
Il progetto nasce dal peregrinare di Davide e Pierangelo, entrambi cittadini del quartiere Rogoredo di Milano: nelle loro passeggiate alla scoperta di nuovi percorsi, si sono imbattuti in un orto tra altri orti, ma che da essi emergeva. Coltivato a fiori più che a ortaggi, ai due è sembrato uno spettacolo di forme e colori differenti ad ogni visita: è stato per loro impossibile non soffermarsi ad osservare e catturare attimi unici.
Conosciuto il giardiniere e ottenuto il libero accesso al giardino, hanno coinvolto altre persone nel progetto che stava prendendo forma nelle loro teste: le fotografie sono andate aumentando e l’energia è dilagata. Pur con tanti sforzi e con pochi mezzi, l’idea è diventata sempre più concreta e oggi è una mostra.
Attraverso il racconto della vita nel giardino, le immagini mirano a comunicare la magia di un angolo di quartiere che cela inattese sorprese accompagnate anche dal racconto “Il giardino incantato” scritto da Daniela Troncacci. “Tra i rami di cespugli rigogliosi, occhi curiosi scrutano, al di là dell’ombra delle fronde, e scorgono la magia di un ameno angolo di mondo, dove qualcosa di straordinario, eppure antico, accade ancora”: così scrive Daniela in un brano del suo racconto che dà anche cenni sul linguaggio dei fiori.
Visto che la Natura ci insegna che nulla finisce e tutto ricomincia, così anche “Il giardino incantato” può essere ovunque: questo è il primo passo di un allestimento che gli organizzatori si ripropongono di portare fuori dal quartiere Rogoredo.
Intanto, se siete a Milano in questi giorni, non perdete la prima tappa: io non mancherò, portando nel cuore i versi shakespeariani che mi sono cari.

Manu

Mostra fotografica “Il giardino e il suo tempo – Forme e colori”
Spazio Socio Culturale Coop, via Freiköfel 7, Milano (quartiere Rogoredo)
Dal 10 al 18 ottobre 2015
Orari di apertura: dal lunedì al venerdì dalle 16 alle 18 | sabato e domenica dalle 10 alle 18
Ingresso libero – mezzi pubblici MM3 Rogoredo oppure autobus 84
La mostra, promossa dall’associazione culturale verdeFestival, gode del patrocinio del Consiglio di Zona 4, del Comune di Milano e di ExpoinCittà

Qui trovate la pagina Facebook della mostra e vi saluto con un regalo: qui potete leggere il racconto “Il giardino incantato” scritto da Daniela Troncacci

C’era una volta… ovvero favole da Fashion Week

C’era una volta una giovane donna molto promettente, una stilista bravissima e di grande talento: le sue creazioni erano raffinate ed eleganti e sapevano parlare un linguaggio senza tempo.
C’era una volta un ufficio stampa, esterno, che la seguiva: le persone che ci lavoravano erano precise, efficienti e rispondevano puntualmente alle richieste di accredito agli eventi, sia che la risposta fosse un sia che la risposta fosse un no.
Poi, un giorno, le strade dell’ufficio stampa e della stilista si separarono.
Lei scelse un nuovo ufficio stampa, anch’esso esterno: peccato, però, che quei signori non avessero affatto la stessa politica dei primi, ovvero non era per loro abituale e normale rispondere.
La favola finisce qui e si rientra nella realtà, la stilista c’era e c’è ancora (per fortuna!) e c’è ancora il secondo ufficio stampa (no comment). A proposito di questi ultimi, mi tocca dire che, nonostante la mia richiesta di accredito per la Fashion Week appena terminata e nonostante l’intervento diretto da parte dello staff della stilista, sto ancora aspettando la loro risposta per una sfilata che è stata mercoledì scorso.
Bizzarro, vero? È bizzarro che l’opinione del cliente rappresentato – che, ripeto, è intervenuto direttamente – conti zero.
Ovviamente, il fatto grave non è che non mi abbiano accreditata, ci mancherebbe, liberissimi di farlo; sottolineo che ciò che è grave è che non abbiano risposto.
E c’è di più: è lo stesso ufficio che la scorsa stagione mi invitò ad un’altra sfilata per poi lasciarmi fuori.
Dunque, non è un caso né si tratta di un singolo episodio sfortunato: è un comportamento reiterato.
E per fortuna, queste persone si occupano di PR, acronimo di pubbliche relazioni.
Bel modo di relazionarsi. Ho ricevuto tanti no, in varie occasioni, più o meno gentili, più o meno eleganti, più o meno motivati: il non rispondere, però, non è fare pubbliche relazioni.
Ah, quasi dimenticavo un altro dettaglio, la ciliegina sulla torta: il giorno successivo alla sfilata, l’ufficio stampa in questione mi ha mandato un promemoria delle presentazioni di altri clienti. Forse hanno improvvisamente ritrovato il mio indirizzo?
Ma guarda un po’ che miracoli accadono talvolta, altro che favole…
Le solite storie, insomma.
Che peccato: per la prima volta, dopo tante stagioni in cui ho seguito con entusiasmo la mia amata e talentuosa stilista, mi viene negata la possibilità di farlo. Negata si fa per dire: ignorata.
Forse sto antipatica all’ufficio stampa: non se la saranno presa per il post di marzo, quando mi sono sfogata per essere stata lasciata fuori dall’altra sfilata?
No, dai, ho solo detto la verità e non ho neppure fatto il loro nome. E poi, se sono offesi, perché mi mandano alcuni inviti? Non sarebbe coerente, giusto?
Pensate che un ufficio del quale avevo invece fatto il nome (in precedenza e relativamente ad altri episodi), all’epoca di quella pubblicazione, mi aveva subito convocata chiedendomi un confronto diretto: certo, non erano contenti ma, anziché offendersi, avevano agito. E questo vuol dire avere coraggio.
Lavorando capita di sbagliare, ma se si sbaglia si chiede scusa. Si impara dai propri errori e le simpatie / antipatie si riservano alla vita privata, soprattutto se ci si occupa di PR. Troppo comodo ignorare, troppo stupido offendersi a cose fatte.
Perché ho scritto questo post e cosa spero di ottenere? Nulla di particolare: l’ho scritto perché, ogni volta in cui vivo qualcosa che non mi piace, anziché subire e macinare rabbia, provo a fare qualcosa di concreto.
Infatti, questo post è stato preceduto da una lettera di protesta indirizzata alla maison con lo scopo di renderli edotti della situazione che ho appena raccontato anche a voi nonché del comportamento del nuovo ufficio stampa scelto: non perdo mai la speranza che certe cose possano cambiare.
Comunque, mi viene in mente un detto delle nostre nonne: il lupo perde il pelo ma non il vizio. E certi lupi, lupi si fa per dire, più che altro non perdono le loro pessime abitudini.
Che noia tutto ciò. Anzi, che-barba-che-noia, come diceva la simpaticissima Sandra Mondaini.
Visto che il c’era una volta che ha fatto da incipit a questo post era preso in prestito dalle fiabe e visto che ho citato il lupo che mi fa pensare a Cappuccetto Rosso, chiudo usando la formula e vissero tutti felici e contenti.
Quasi tutti.

Manu

I bijoux di Boemia da Jablonec a Casalmaggiore

Cartella campionaria di bottoni in vetro, Archivio Unger, foto Giorgio Teruzzi

Ci sono luoghi nei quali ritorno con gioia in quanto mi hanno regalato tantissime emozioni.
Qualche mese fa, sono stata al Museo del Bijou di Casalmaggiore per la mostra dedicata a Maria Vittoria Albani: è stata un’esperienza molto bella e, oltre a consentirmi di incontrare le creazioni firmate Ornella Bijoux, mi ha dato la possibilità di conoscere il museo che è unico nel suo genere.
Fondato nel 1986, il museo conserva e valorizza oltre 20 mila pezzi di bigiotteria, macchinari, utensili, fotografie e cataloghi tutti databili dalla fine dell’Ottocento alle soglie del nuovo millennio. Perché a Casalmaggiore? Perché questa cittadina ha accolto uno storico e importante distretto di bigiotteria sorto tra XIX e XX secolo: il museo ospita dunque reperti e testimonianze provenienti dalle dismesse industrie locali e da numerose donazioni di aziende e collezionisti del settore.
Nella mia agenda di ottobre, c’è ora un appunto segnato in rosso: dice “tornare a Casalmaggiore”.
Viene infatti inaugurata oggi la mostra Perle tra i Monti, Bijoux di Boemia curata da Bianca Cappello e Giorgio Teruzzi: visto che resterà aperta fino a domenica 8 novembre 2015, oltre a ripromettermi di visitarla, mi fa piacere segnalarvela subito affinché possiate avere tutto il tempo necessario per una piacevole gita, magari approfittando dei week-end di ottobre.
Bianca Cappello (storica e critica del gioiello nonché curatrice dell’esposizione incentrata su Ornella Bijoux) e Giorgio Teruzzi (presidente della Compagnia delle Perle) hanno voluto mettere in evidenza bijou e perle in vetro provenienti da Jablonec: incuriosita da un argomento così specifico, ho fatto qualche ricerca su questa città della Repubblica Ceca e ho scoperto che l’industria del vetro vi ha occupato un ruolo importante fin dalla seconda metà del XVII secolo. Ancora oggi, ben 11.000 persone sono occupate in tale settore e in quello della bigiotteria.
Dalla fine del XIX secolo alla seconda metà del Novecento, perle e bijou prodotti a Jablonec e in tutta la Boemia (il nome storico della regione che occupa due terzi della Repubblica Ceca) erano diffusi in tutto il mondo ed erano molto apprezzati anche in Italia: ne troviamo testimonianza negli ornamenti esposti a Casalmaggiore e negli archivi di storiche realtà milanesi oggi ancora attive come Unger (fondata nel 1875) e Viganò (fondata nel 1919, punto di riferimento ogni volta in cui cerco materiali per effettuare piccole riparazioni e modifiche) o ancora negli archivi di Imelde Chiozzi, impresa attiva fra il 1919 e i primi anni ’30. Tutte queste aziende proponevano articoli di alto livello per la media e alta borghesia e per le case di moda: c’erano poi i gioielli di scena realizzati negli anni ’30 per il Teatro alla Scala di Milano dalla ditta Corbella.
Fondata nel 1865 da Napoleone Corbella, la “prima fabbrica italiana di bigiotteria e attrezzature teatrali” ha prodotto collane, corone, orecchini, cinture e spade per gli allestimenti più sfarzosi della Scala e di molti altri teatri, spesso in collaborazione con i grandi nomi della scenografia e del costume.
Per la prima volta in Italia, viene dunque presentata una cospicua selezione di centinaia di pezzi tra perle, strumentazioni, bijou, accessori, ricami, riviste e fotografie d’epoca provenienti da enti, archivi storici e prestigiose collezioni private: il tutto permette di mostrare una significativa panoramica della variegata produzione boema, un mondo scintillante (anzi, glittering) e tutto da scoprire, da Jablonec a Casalmaggiore.
Il bijou conferma ancora una volta la sua capacità di essere specchio dei tempi fra economia e amore per il bello: è un frammento di gusto, storia e costume. E io ne sono felice.

Manu

Perle tra i Monti, Bijoux di Boemia
Mostra a cura di Bianca Cappello e Giorgio Teruzzi
Museo del Bijou di Casalmaggiore fino a domenica 8 novembre 2015
Via Porzio 9 – Casalmaggiore (CR)
Apertura: dal lunedì al sabato dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18; domenica e festivi dalle 15 alle 19.
Per scuole e gruppi possono essere prenotate visite guidate, percorsi didattici e attività di laboratorio.
Tel. 0375 284423 – 0375 205344
Qui il sito e qui la pagina Facebook del Museo; qui la pagina dedicata alla mostra.

Qui trovate il mio articolo sulla mostra dedicata a Ornella Bijoux curata da Bianca Cappello al Museo di Casalmaggiore.

Venezia come piace a me – in tutti i sensi

Io “persa a Venezia” o “lost in Venice”, come preferite, marzo 2012 (ph. credit Alessandra B.)

Ci sono città alle quali siamo particolarmente legati, per tanti motivi.
Tra quelle alle quali sono legata io, Venezia occupa sicuramente un posto di rilievo: a parte la sua innegabile bellezza, ho la fortuna di averla sempre vissuta e condivisa con persone per me importanti.
La prima volta in cui ci sono stata ero bambina e ci andai con la famiglia: le gite coi miei genitori e mia sorella erano sempre momenti e occasioni speciali, dunque la città lagunare entrò subito nel mio cuore.
È stata anche il luogo della prima escursione fuori porta con mio amarito. Ci conoscevamo da pochi giorni, esattamente 3 o 4, e a Venezia c’era una mostra di Salvador Dalí che volevo tanto vedere: mandai un sms a Enrico proponendoglielo, scrivendogli “so che sembra una follia”.
Non avevo mai fatto nulla di simile, con nessuno: mi rispose nel giro di pochi minuti con un “adoro queste cose, andiamo”. Erano i primi di gennaio e ricordo che quel giorno il freddo era allucinante, eppure non ricordo un’altra volta in cui città e laguna mi siano sembrate più belle. (E nel frattempo sono passati più di 10 anni… Venezia ha portato bene!)
La mia gita più recente a Venezia è stata invece con un’amica, Alessandra. Era il 2012 (noto ora che è passato un po’ di tempo… troppo, per i miei gusti) e siamo andate a vedere un’altra mostra, stavolta interamente dedicata alla grande Diana Vreeland. Nel raggiungere a piedi la nostra destinazione, Palazzo Fortuny, ci siamo concesse un vero lusso: girovagare senza fretta, perderci col naso per aria inseguendo ciò che più ci colpiva.
Ecco perché, quando mi sono imbattuta nel libro Venezia come piace a me di France Thierard, me ne sono innamorata all’istante: incarna la mia idea di libertà nonché il rapporto che ho con questa città e lo incarna nel titolo (sottolineo il come piace a me) nonché nel sottotitolo che lo descrive come una guida per perdersi.
Dovete sapere che più vado avanti con gli anni e meno sopporto le guide perfette, i viaggi preconfezionati e infiocchettati, la formula tutto-incluso-e-tutto-previsto: in realtà, sopporto sempre meno qualsiasi cosa perfetta, forse perché io sono altamente imperfetta. E l’idea di una guida per perdersi mi è sembrata un ossimoro meraviglioso, un contrasto stuzzicante al punto giusto, un argomento del quale mi piaceva parlare.
Amo molto un bellissimo aforisma di Ennio Flaiano, da Diario degli errori. Dice: “Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni.”
Trovo che queste parole siano potenti e piene di verità: visto che il libro sogna, sono d’accordo, allora penso che quel sogno possa avere molti piani di lettura e che ci siano tanti modi di raccontarlo.
Oggi vi ho dato un punto di vista un po’ strano e soprattutto personalissimo del sogno rappresentato da Venezia come piace a me e del perché io me ne sia innamorata; se volete leggere un racconto un po’ più serio, se volete una descrizione più approfondita, se vi ho incuriositi e volete sapere di più del libro (e non solo dei miei sproloqui), qui trovate la mia recensione per SoMagazine.
Se acquisterete il volume, farete una scoperta: France ha chiesto tra l’altro ad alcune amiche veneziane di raccontare la loro città, la loro Venezia. Dunque, in fondo, gli sproloqui e il racconto della mia Venezia non sono poi così distanti dallo spirito dell’autrice, dalle sue intenzioni e dalla sua bella guida.

Manu

Altri link, se vi va:
Il mio articolo sulla mostra Diana Vreeland after Diana Vreeland, marzo/giugno 2012, Palazzo Fortuny, Venezia: qui.
La mia nuova collaborazione con SoMagazine: qui.

Cara Delevingne e i mocassini nei quali imparare a camminare

La modella Cara Delevingne ha deciso di dire addio a moda e passerelle: 23 anni appena compiuti, britannica, ha dichiarato di non riuscire più a sopportare lo stress del mondo in cui stava conducendo una brillante carriera.
A me dispiace: ho da sempre un grande debole per lei.
Penso che Cara sia una delle poche giovani top model in grado di far rivivere i fasti degli anni ’80, quando le modelle erano le protagoniste quasi assolute: non possiede solo fisico e portamento, ma anche carisma e carattere.
E non ha paura di giocare con la sua immagine: fa le smorfie, scherza, è ironica.
Lei – con le sopracciglia marcate e il comportamento un po’ da monella – ha portato disinvoltura in un ambiente troppo spesso coi nervi a fior di pelle, ma alla fine la frenesia della moda l’ha stancata e allontanata.
Ho avuto la fortuna di incontrarla a Milano in settembre 2012 in occasione della Fashion Week, dopo la sfilata di Dsquared2. Difficilmente chiedo alle persone famose di poter essere fotografata con loro, è una cosa che mi infastidisce e mi imbarazza. Cara, però, era divertita dal farsi fotografare con tutti e si prestava volentieri, così mi sono lanciata anch’io. Eccoci qui sopra.
Dopo le sue dichiarazioni, in rete sono spuntati commenti acidi e paragoni a mio avviso fuori luogo, cattiverie gratuite, giudizi superficiali e anche un po’ banali e scontati. Del tipo “ma vai a lavorare in miniera”.
Perdonatemi ma questo bisogno morboso di giudicare le vite altrui io proprio non lo capisco. Posso capire la curiosità verso i personaggi celebri (per quanto non la comprendo quando diventa esagerata), ma non capisco l’esigenza di sparare sentenze a tutti i costi.
E poi mi sfugge la logica di tali sentenze: siamo così sicuri del fatto che un lavoro sognato e ambito da molti sia garanzia di felicità per chi quel mestiere lo fa?
Certo, non voglio negare che ci siano lavori meno simpatici – definiamoli così – rispetto a fare la modella, ma non sarà che il nostro giudizio si ferma un po’ troppo in superficie e guardiamo solo il lato luccicante, quello che è sotto gli occhi di tutti?
Vedo le modelle nei backstage delle sfilate e in giro per casting e credetemi se vi dico che non invidio affatto la loro vita. È vero, viaggiano, hanno fama (non tutte), guadagnano bene (non tutte), ma la pressione psicologica su di loro è fortissima.
Dover essere sempre perfette non è un mestiere facile, tutt’altro, e ogni donna lo sa bene: quante volte, alzandoci al mattino, vorremmo scomparire piuttosto che presentarci al mondo? Ecco, una modella non può nascondersi in nessun posto.
Vi prego, non ditemi “se l’è scelto lei”. Certo, nessuno le obbliga, ma questo non comporta che fare la modella sia semplice o che sia tutto rose e fiori.
A noi piacerebbe se, davanti a una nostra difficoltà, qualcuno ci dicesse “te lo sei scelto tu”? A me non piacerebbe e, in un momento di crisi, mi piacerebbe piuttosto una parola di comprensione, magari anche un rimprovero, ma costruttivo.
Cara ha fatto affermazioni molto gravi: ha spiegato di essere arrivata a odiare il proprio corpo e che lo stress le ha scatenato una forte forma di psoriasi. E ha aggiunto che le passerelle le hanno fatto dimenticare quanto fosse giovane e, anzi, l’hanno fatta sentire più vecchia.
Se pensate che Miss Delevingne sia esagerata, vorrei mostrarvi il video di una modella svedese di nome Agnes Hedengård: la ragazza, 19 anni, racconta di lavorare da 5 e di non riuscire più a salire sulle passerelle perché oggi è giudicata troppo grassa da molte agenzie. Guardatela e ascoltatela: io non dico nulla, a ciascuno la propria opinione.
Permettetemi solo una piccola riflessione finale, un aneddoto personale.
Una volta mi hanno detto una cosa che mi ha fatto rimanere piuttosto male. Suonava pressapoco così: “devi essere una che ha pochi problemi, sorridi sempre”. Vi dirò che questa persona non aveva capito granché di me: i problemi li ho, come tutti, però non mi piace andare in giro con la faccia triste. Secondo me, avere la faccia triste è controproducente: se abbiamo l’aspetto di persone sempre problematiche, non facciamo altro che allontanare gli altri. Credo, invece, che sfoderare un sorriso predisponga meglio sia noi che gli altri.
Forse quelle persona non voleva dirmi una cattiveria, forse a suo modo voleva farmi un complimento, ma gli è riuscito malissimo e a me quelle parole sono suonate odiose, esattamente come sentirsi dire “vai a lavorare in miniera”.
Un proverbio degli indiani d’America dà un consiglio estremamente valido: “Prima di giudicare una persona, cammina per tre lune nei suoi mocassini.”
Cerchiamo di riconquistare una cosa che sembra un po’ sparita, ultimamente: la capacità di metterci nei panni degli altri. Meno giudizi e più umana simpatia verso debolezza e (presunti) errori.

Manu

A proposito dell’eccessiva magrezza di alcune modelle: il mio articolo su una pubblicità di Saint Laurent bloccata dalla Advertising Standards Authority.

Sopra il Sotto: 24 tombini raccontano arte e moda a Milano

Ieri pomeriggio ero seduta alla mia scrivania quando Enrico, mio marito, è venuto a chiamarmi dicendo “vieni a vedere di cosa stanno parlando in televisione”.
Incuriosita, l’ho raggiunto in salotto: stava iniziando un programma incentrato sulla Bretagna, bellissima regione francese che noi amiamo molto e della quale ho anche parlato qui sul blog attraverso alcuni post pubblicati la scorsa estate.
Sono rimasta colpita dalla parte su Brest, città che noi abbiamo visitato nel 2012: il programma raccontava che, nella zona del porto commerciale, molti muri prima tristemente bianchi o grigi sono oggi ornati da bellissime opere firmate dai cosiddetti street artist.
Le opere sono autentiche pitture murali spesso di dimensioni importanti: in un certo senso, sono la versione moderna degli antichi affreschi e sono stati incoraggiati dalle autorità. Il giornalista spiegava che l’Ufficio del Turismo della città propone, tra i vari tour possibili, anche un itinerario che permette di scoprire questi capolavori d’arte a cielo aperto.
Sapete che sono una grande amante dell’arte e non vi nascondo che mi piace che essa serva a riqualificare le città non restando chiusa in musei e gallerie bensì andando incontro alle persone.
E così, innamorata dell’esempio di Brest, città che come altre ha deciso di dare spazio a questo tipo di creatività, oggi ho pensato di raccontarvi un progetto che riguarda la mia Milano con un altro esempio piuttosto curioso di open air art: le opere non si ammirano ai muri ma… sotto i nostri piedi.
Mi riferisco a Sopra il Sotto – Tombini Art raccontano la Città Cablata, un’iniziativa culturale promossa e realizzata da Metroweb, azienda titolare della più grande rete di fibre ottiche d’Europa.
Il progetto Sopra il Sotto nasce dalla volontà di guardare oltre, cosa che mi piace molto. Sotto l’asfalto e sotto i tombini si nasconde la rete in fibra ottica, una sorta di sistema di vene delle metropoli: grazie a questa rete, viaggiano informazioni preziosissime delle quali usufruiamo attraverso telefono, televisione e Internet.
Metroweb ha fatto da mecenate a questo progetto visionario che racconta la rete in un modo diverso grazie a una mostra unica nel suo genere: dal 24 febbraio di quest’anno, via Monte Napoleone e via Sant’Andrea ospitano 24 tombini artistici, pezzi unici e originali, cesellati a rilievo e dipinti a mano, pensati e ideati appositamente da numerosi stilisti, brand e maison che hanno aderito con entusiasmo.
Tra i tombini ce ne sono due progettati da altrettante giovani promesse dello stile: è stato infatti indetto un contest in collaborazione con l’Istituto Marangoni di Milano e una giuria (composta da rappresentanti di Metroweb, di Camera Nazionale della Moda Italiana e della celebre scuola di moda) ha selezionato tra gli studenti i due giovani fashion designer che hanno meglio interpretato il concetto di base. Alessandro Garofolo e Santi – questi i loro nomi – hanno così avuto la soddisfazione di veder realizzato il loro tombino che resterà in mostra fino a gennaio 2016, così come tutte le altre opere.
Questa è la terza edizione di Sopra il Sotto: come già avvenuto nel 2009 e nel 2010, a chiusura della mostra open air i Tombini Art, dopo un attento restauro, saranno battuti all’asta da Christie’s. Il ricavato sarà interamente devoluto a favore di Oxfam Italia, organizzazione non a scopo di lucro che è anche Civil Society Participant di Expo 2015.
Il tombino, oggetto che fa parte dell’arredo urbano, diventa dunque soggetto e lo fa attraverso la moda: il progetto fonde i due lati di Milano, affari ed estro creativo, in una mostra che riesce a portare l’amore per il bello e per il ben fatto dalle passerelle alla strada.
Se vivete a Milano o se avete occasione di visitarla magari proprio per Expo 2015, regalatevi un giro in via Monte Napoleone e via Sant’Andrea, stavolta a testa in giù e non in su come di solito si fa per ammirare le bellezze architettoniche delle città: in questo caso, l’arte viene messa ai nostri piedi, non solo metaforicamente, e dunque occhio a dove camminiamo 😉
Lo so, i tombini sono fatti per essere calpestati, eppure vi confesso che io non ho avuto il coraggio di camminarci sopra.

Manu

Sopra il Sotto – Tombini Art raccontano la Città Cablata, mostra di 24 tombini ideati dai grandi protagonisti della moda: in ordine di percorso, Giorgio Armani, Just Cavalli, Etro, Missoni, Larusmiani, Laura Biagiotti, Costume National, Moschino, 10 Corso Como, Prada, Trussardi, DSquared2, Versace, Iceberg, Brunello Cucinelli, Hogan, Alberta Ferretti, Valentino, Salvatore Ferragamo, Emilio Pucci, Giuseppe Zanotti Design, Ermenegildo Zegna e con la partecipazione di Istituto Marangoni.
Un progetto di Metroweb da un’idea di Monica Nascimbeni col patrocinio del Comune di Milano. In collaborazione con la Camera Nazionale della Moda Italiana e in partnership con Oxfam Italia.
Dove: Via Monte Napoleone e via Sant’Andrea, Milano
Quando: fino a gennaio 2016, a cielo aperto e sempre visibile night & day
Maggiori informazioni sul sito, sulla pagina Facebook, su Twitter e sul canale YouTube. Qui potete vedere il catalogo e qui il video di presentazione.

Il sito di Oxfam Italia: qui.

A proposito di Brest e dei suoi graffiti: qui potete ammirare uno dei murali opera dell’artista Pakone.

L’arte fuori dai musei, in giro per la città: qui ho raccontato la mostra Milan and the Magic Accessories, qui la riqualifica del sottopassaggio della Stazione Garibaldi e qui la mostra Viaggio in Italia.

La foto che illustra questo articolo mostra uno dei tombini del progetto Sopra il Sotto: è stata scattata il 27-02-2015 dalla mia amica Valentina Fazio e mostra (da sinistra in senso orario) me, la stessa Vale e Alessia Foglia (o meglio i nostri piedi!) attorno al tombino “Walk in Progress” firmato Giuseppe Zanotti Design.

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