Riflessioni su moda e costume passando per i jeans

Oggi mi sento in vena di nostalgia per il passato.
E – chissà perché – spesso capita che quello che proviamo sembra essere acuito e amplificato da ciò che ci circonda.
Mi spiego meglio: avete presente quando vi sentite romantiche e non vedete altro che coppie che si baciano? Oppure quando siete tristi e in televisione danno solo film strappalacrime?
Ecco, oggi, nelle mie incursioni sul web, mi sembra di trovare solo materiale che alimenta pensieri e nostalgie, ma ho deciso di volgere il tutto in un’ottica positiva: la mia convinzione è che si guarda avanti solo conoscendo ciò che è stato. Presente e futuro privi della memoria del passato equivalgono a una casa senza fondamenta e mi piacerebbe dimostrare quanto ciò sia vero più che mai nella moda e nel costume.

Ho usato – appositamente distinguendoli – i termini moda e costume e qui mi tocca fare una digressione: c’è differenza? Possono essere considerati sinonimi?
Diciamo che esistono delle sfumature.
La moda riguarda il cambiamento progressivo – e sempre temporaneo – del nostro modo di vestire e di arredare, ma anche, per esempio, di viaggiare, spostarci o divertirci: racconta, insomma, lo stile di vita sia della società sia dei singoli individui. Un tempo, tali cambiamenti erano molto lenti, mentre oggi sono sempre più veloci.
Il costume analizza invece comportamenti, usi e abitudini in chiave antropologica, ovvero studia i bisogni alla base e le caratteristiche che permettono di riconoscere una civiltà da un’altra o un’epoca da un’altra.

Naturalmente, moda e costume si influenzano a vicenda e sono correlati: non dimentichiamo inoltre che l’essere umano è l’unica creatura vivente che interviene volontariamente sul proprio aspetto attraverso il tramite di elementi esterni e lo fa per moltissimi motivi pratici e sociali, dall’esigenza di coprirsi e proteggersi al bisogno di comunicare passando per la pura vanità (l’intervento di modifica avviene talvolta anche nel mondo animale e vegetale, è vero, ma solitamente è finalizzato e limitato a precise fasi e a momenti specifici quali per esempio il corteggiamento, l’accoppiamento, l’impollinazione).

Sapete, Enrico, il mio amore, mi ha appena regalato un libro molto interessante, si intitola Fashion:Box ed è edito da Contrasto: racconta quelli che sono considerati i grandi classici della moda (la minigonna, la camicia bianca e via discorrendo) e li collega alle icone che hanno contribuito a renderli immortali (un esempio per tutti, Audrey Hepburn e il tubino nero).
Proprio iniziando a leggere questo volume, mi è venuto in mente un esempio di capo che ha fatto la storia del costume e che oggi racconta la moda: mi riferisco ai jeans.

Si dice che i jeans siano nati a Genova sebbene la loro definitiva affermazione sia poi partita dagli Stati Uniti, nel periodo della corsa all’oro: nel 1853, Levi Strauss apre a San Francisco un negozio per vendere oggetti utili a lavoratori e cercatori d’oro e propone dei grembiuli in denim, un pesante tessuto di colore blu.
Un sarto di nome Jacob Davis, originario del Nevada, si unisce a lui e, nel 1873 (precisamente il 20 maggio), l’ufficio americano dei brevetti rilascia loro l’autorizzazione a produrre in esclusiva pantaloni di cotone robusto tenuti insieme anche grazie a rivetti metallici posti nei punti più soggetti a tensione e usura.
In quegli anni, il denim viene usato dagli operai che costruiscono le prime ferrovie americane, dai taglialegna e dai mandriani di bestiame: i jeans vanno dunque a soddisfare un bisogno, quello di avere indumenti funzionali, resistenti e longevi.
Con l’avvento del secolo successivo e in particolare negli Anni Cinquanta, il cinema americano porta i jeans nelle case dei giovani attraverso idoli quali James Dean o Elvis Presley: i pantaloni in denim diventano il simbolo della ribellione giovanile e della voglia di prendere le distanze dalla monotonia (e dall’ipocrisia) del mondo degli adulti.
In seguito, però, i jeans diventano trasversali e negli Anni Ottanta si trasformano addirittura in un capo di lusso. Oggi non parlano necessariamente di bisogni soddisfatti o di voglia di ribellione e sono indossati da tutti, qualsiasi mestiere si faccia e a qualsiasi età, cambiando rapidamente fogge e modelli: hanno smesso quindi di essere un fenomeno di costume per entrare a pieno titolo nelle vicende di moda.

A questo punto, dopo aver fatto una piccola distinzione tra costume e moda, torno a ciò che volevo affermare fin dal principio: il passato ci dà chiavi di lettura che permettono di capire il presente e ci consentono di guardare al futuro.
Inoltre, osservando lo scorrere del tempo, possiamo fare un’altra constatazione: i cambiamenti nella moda non sono affatto un prodotto della società moderna come molti credono, bensì hanno accompagnato ogni epoca.
Al limite, ciò che è cambiato è l’atteggiamento, l’attitudine a fare dei trend una mania che può diventare malsana nel momento in cui perdiamo la componente critica che invece dovrebbe essere sempre presente.
La critica alla quale mi riferisco deve essere costruttiva e non distruttiva: semplicemente, come ho affermato in altri casi, cerchiamo di non accettare pedissequamente tutto ciò che la moda ci propina e facciamo invece sentire la nostra voce e la nostra personalità. È così che taluni sono riusciti a scrivere la storia della moda.

A dimostrazione del perenne mutare della moda in ogni epoca, vi mostro il delizioso quadretto qui sopra: illustra quanto e come siano cambiate le fogge femminili in un periodo relativamente breve, dal 1809 al 1828 (1).
E concludo con due video molto divertenti: per par condicio, uno è dedicato alle donne e uno agli uomini.
Guardando i video, a me è venuto un pensiero: in alcuni casi, preferisco la moda del passato, naturalmente senza tornare a estremismi come i corsetti che stringevano la vita, per carità, orpelli che rendevano la donna prigioniera (2).

Ve l’avevo detto che oggi sono nostalgica, tuttavia non voglio perdere di vista il mio obiettivo primario e torno a sottolineare che storia e ricordo devono avere una valenza educativa e fungere da insegnamento senza imprigionarci: «Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo», scriveva il filosofo e saggista spagnolo George Santayana.
Sono d’accordo con lui e lo sono comunque sia il passato, bello o brutto.

Manu

(1) Per chi fosse curioso quanto lo sono io: l’illustrazione cita un periodico pubblicato in Inghilterra tra il 1809 e il 1829 dall’editore e litografo Rudolph Ackermann. Sebbene tale periodico fosse spesso chiamato Ackermann’s Repository o semplicemente Ackermann’s, il titolo esatto e completo era Repository of arts, literature, commerce, manufactures, fashions and politics: in effetti, andava a coprire tutti questi campi e, durante gli anni della sua pubblicazione, ha avuto grande influenza sui gusti inglesi.
Il quadretto d’insieme è un’elaborazione digitale dell’artista Evelyn Kennedy Duncan aka EKDuncan.

(2) Nel caso in cui qualcuno non creda al fatto che i corsetti stringivita imprigionassero le donne, riporto le significative parole di Thorstein Bunde Veblen, economista e sociologo statunitense: «Il busto – scriveva Veblen, grande ritrattista della classe agiata – è sostanzialmente uno strumento di mutilazione al fine di ridurre la vitalità del soggetto e di renderla evidentemente inadatta al lavoro».
Durante tutto il 1800, la donna doveva avere il cosiddetto vitino di vespa con una circonferenza che non superava i 40 centimetri, in netto contrasto con l’ampiezza delle gonne.

Confidenze tra zia e nipote tra amore, logica e moda

Scenario: lettone, coccole e conversazioni serali tra zia (io) e nipote (la mia Alissa di 7 anni, prima elementare appena finita).
“Zia, tu vai alle sfilate?”
“Sì, amore mio.”
“Ma le organizzi anche?”
“No, mi limito ad andarci, le guardo e poi racconto come sono state.”
“Ah, ma allora fai il giudice?”
Rimango interdetta per un attimo: faccio il giudice? Non avevo mai visto la cosa da questo punto di vista…
In effetti, semplificando parecchio, un giudice emette giudizi: non faccio forse qualcosa di simile valutando il lavoro di uno stilista?
Mi chiedo se devo svelare alla cucciola le mie teorie: non mi piace emettere giudizi bensì semplici opinioni, mi piace essere costruttiva, parlo solo di ciò che amo lasciando che altri si occupino di ciò che non piace a me, non per mancanza di coraggio, ma perché credo che tutti abbiano diritto a una possibilità. E via discorrendo, bla bla bla…
Ma no, meglio tacere – per una volta.
“Sì, amore, hai ragione, è qualcosa di simile.”
I bambini hanno una logica straordinaria, meravigliosamente semplice e lineare: spesso funziona meglio di quella di noi adulti ed è priva di qualsiasi strano calcolo. In loro c’è verità e immediatezza.
Un paio di anni fa, Alissa lasciò mia mamma senza parole dicendole “Sai, nonna, la zia fa la moda”. Sicuramente un piccolo lapsus tra fa e si occupa – o forse no, forse nella sua logica le cose stanno proprio così (Dio la benedica).
E allora vi dico una cosa: per il mondo possiamo anche essere nessuno ma se un bambino ha fiducia in noi e per lui siamo una sorta di eroe… beh, allora siamo qualcuno, eccome.
Con questa piccola riflessione vi auguro buon Ferragosto, ovunque siate e con chiunque siate.
Il mio sarà tranquillo, in famiglia, nipotina inclusa: aspetto il suo arrivo curiosa di sapere quale altra rivelazione strabiliante mi farà.
In ogni caso, sono certa che mi aiuterà a districare e semplificare qualche questione come solo la limpida logica di un bambino può e sa fare.

Manu

A proposito di coccole e tenerezze… Il disegno di Alissa per il recente anniversario dei nonni: qui.

Arrivano i Fashion Minions e vogliono conquistarci

Sicuramente è bastata l’immagine qui sopra per far sì che li abbiate riconosciuti: sono i Minions!
Ve lo confesso, io sto aspettando il 27 agosto, data nella quale uscirà in Italia il film che svelerà origini e futuro del gruppo di deliziosi e occhialuti esserini gialli che parlano una lingua tutta loro e in linea di massima incomprensibile se non per la chiarissima esclamazione “bananaaa!!!”.
Goffi, buffi e un filino cialtroni (sebbene simpaticamente), si fanno comunque capire perché tutto in loro è straordinariamente espressivo: i Minions hanno stregato grandi e piccini tanto che, quando mi regalano un pupazzo con le loro sembianze, sono felice (se non mi credete cliccate qui) e anche il fashion system strizza loro l’occhio (cliccate qui per vedere la notizia che avevo pubblicato mesi fa sulla pagina Facebook del blog).
Forse, vi state chiedendo cosa sia l’immagine qui sopra, una veste un po’ insolita anche se scommetto che facce e atteggiamenti sono familiari e vi ricordano qualcuno… Qualcuno che ha uno stretto rapporto con la moda…
L’idea è del sito Stylight e si basa sul fatto che i Minions hanno un sogno, ovvero lavorare per un cattivo: e se questo cattivo fosse la temutissima e potentissima Anna Wintour, direttrice dell’edizione statunitense di Vogue?
Sono nati così i Fashion Minions (o Minionistas dall’unione di Minions e fashionista): dalla già citata Anna Wintour alla top model Cara Delevingne con una delle sue smorfie dispettose, dalla it-girl Alexa Chung in versione bon ton, con tracolla Chanel, a vari stilisti tra i quali Karl Lagerfeld (con la sua ormai celeberrima gattina Choupette), Vivienne Westwood e Jean-Paul Gaultier. Non mancano alcuni blogger di fama internazionale.
Insomma, è amore tra la moda e le piccole creature: “Detesto il giallo, ma i Minions mi hanno fatto amare questo colore”, dichiara Alber Elbaz, direttore artistico della maison Lanvin, in un video (scherzoso) pubblicato su British Vogue. A proposito, amici di Stylight, noto che nella combriccola dei Fashion Minions manca proprio lo stilista: io rimedierei, anche perché, secondo me, Mr. Elbaz sarebbe irresistibile e strepitoso in tale versione 😉
Io, comunque, ho già scelto i miei preferiti: sono Jean-Paul Gautier, in marinière ovvero t-shirt a righe blu, e l’iconica Iris Apfel, con l’inconfondibile chioma bianca e i suoi immancabili gioielli.
La butto lì: a quando i pupazzi da stringere davvero? Vi immaginate poter stropicciare un po’ la sempre perfetta Anna Wintour?

Manu

I Fashion Minions su Stylight: qui. Il video Are The Minions Finally Gracing The Vogue Cover? di British Vogue: qui.

Visto che ho nominato la banane, qui trovate un mio post che le rapporta alla moda 😉

Sì, con Postalmarket era proprio una festa

Con Postalmarket, sai, uso la testa e ogni pacco che mi arriva è una festa…
Se non ricordate queste parole che davano il via a un famoso jingle pubblicitario significa che siete molto giovani – beati voi 🙂
E quindi la notizia che sto per riportare non vi dirà un granché: Postalmarket chiude definitivamente.
Ebbene sì, lo scorso 25 luglio il tribunale di Udine ha decretato il fallimento di ciò che restava di Postalmarket, storico catalogo di articoli venduti per corrispondenza che ha fatto parte della vita di moltissimi italiani.
Postalmarket nasce nel lontano 1959 da un’idea di Anna Bonomi Bolchini: la grande imprenditrice (il cui nome è legato anche a società come Brioschi, Miralanza, Rimmel e Durbans) decide di importare in Italia il modello statunitense della vendita per catalogo. Negli anni ’60 e ’70, l’azienda cresce dando la possibilità a molti italiani di accedere ai prodotti reclamizzati dal celeberrimo Carosello, allora spesso difficilmente reperibili.
Nel 1980, c’è la prima crisi cui però segue una crescita: nel 1987, il fatturato è di ben 385 miliardi delle vecchie lire, i dipendenti diretti sono oltre 1400 e maison come Krizia, Coveri e Biagiotti firmano i cataloghi più esclusivi.
Nel 1993, Postalmarket passa sotto il controllo del colosso tedesco numero uno mondiale dello shopping per posta, ma le cose non vanno come sperato: nel 1998, sull’orlo del fallimento, la società viene rilevata da un altro imprenditore italiano, Eugenio Filograna. Quest’ultimo reintroduce il made in Italy (evviva!) e punta sull’e-commerce con 22.000 prodotti, riuscendo a riportare l’azienda in utile e preparando la quotazione in borsa che però salta a causa di alcuni scandali finanziari.
Segue un commissariamento e seguono nuovi passaggi di proprietà fino ad arrivare alla sentenza di fallimento che chiude definitivamente, a più di mezzo secolo dall’uscita del primo numero, l’avventura di Postalmarket.
A chi è abbastanza grandino, come me, questa notizia dispiace, perché Postalmarket ha rappresentato un primo approccio con la moda per molti di noi.
Prova del successo del catalogo è anche l’elenco delle testimonial di copertina, celebrità del calibro di Ornella Muti (primavera/estate 1978), Ornella Vanoni (autunno/inverno 1979/80), Carol Alt (autunno/inverno 1990-91), Cindy Crawford (autunno/inverno 1993-94), Eva Herzigova (primavera/estate 1995).
Ricordo come io e mia sorella, allora molto piccole, aspettavamo ogni nuova edizione del catalogo, come litigavamo per il diritto a sfogliarlo per prime: riuscivamo perfino a giocarci, sfogliandolo insieme e «facendo le scelte», come le chiamavamo, ovvero indicando un capo per ciascuna per ogni pagina. Non parliamo poi dell’effetto sortito su di noi dalla sezione giocattoli…
Postalmarket significava non avere limiti o confini molto prima che arrivasse Internet. Peccato che nessuno sia stato capace di portarlo dalla carta al web.
Sarei felice se scoprissi che mia mamma ha conservato uno di quei vecchi cataloghi. Glielo chiederò.

Manu

P.S.: Concludo con una curiosità. Molti anni dopo, nel momento in cui ho iniziato a lavorare per le redazioni, ho scoperto che quando editor e stylist si recano presso uffici stampa, showroom o brand per selezionare i capi per i servizi moda si dice «fare le scelte»… Un piccolo segno del destino? Chissà 😉

Dimmi quale rossetto scegli e ti dirò dove vai

Photo credit and copyright Heathrow Airports Ltd

Credo che il rossetto sia il cosmetico che tutte noi donne abbiamo desiderato, comprato o indossato almeno una volta nella nostra vita.
Più dell’ombretto, del mascara, della cipria o dello smalto, il rossetto è il belletto col quale una bambina inizia a cimentarsi: spesso, il desiderio nasce emulando la propria madre, qualsiasi colore o tipo lei porti.
Sembrerebbe che il colore del rossetto segua non solo le mode, bensì arrivi anche ad avere motivazioni sociologiche: secondo le statistiche, in periodi di crisi si vendono più rossetti rossi. Perché? Perché il rosso è un colore che richiama la vita e ha influenza positiva su morale e autostima: sceglierlo rappresenta una forma inconscia di reazione.
Visto l’interesse che il rossetto riscuote presso noi donne, oggi vorrei condividere con voi uno studio che ha catturato la mia attenzione: Heathrow, il celebre aeroporto londinese, ha collaborato con World Duty Free e con la specialista Alice Hart-Davis (giornalista vincitrice di diversi premi) allo scopo di redigere Lipstick Colours of the Year, uno studio che rappresenta un piccolo panorama delle scelte a proposito di rossetto fatte dalle donne in viaggio verso 50 grandi città.
Vi chiederete il perché della ricerca: a Heathrow c’è il più grande duty free europeo per i prodotti di bellezza e così si è pensato di curiosare nei gusti femminili incrociando carte di imbarco e acquisti.
La ricerca, credo unica nel suo genere, può essere ritenuta una buona fotografia visto che Heathrow accoglie ogni anno oltre 70 milioni di passeggeri in partenza per ben 180 diverse destinazioni: il duty free dell’aeroporto offre 120 brand di cosmesi, 12.500 prodotti e 1.451 diversi rossetti e fornisce dunque un campione valido ed autorevole per indagare gusti e pensieri delle viaggiatrici.
Si è scoperto che dalle nuance più chiare e trasparenti fino a quelle più decise e sfacciate, sono 50 le tinte preferite dalle donne di tutto il mondo che sono passate per l’aeroporto londinese comprando un rossetto.
Qualche esempio?
A Londra, il colore in voga è il caramel nude, in piena tendenza naturale; a New York, al contrario, è il rosso a farla da padrone con la nuance classic red che diventa bright red a Madrid. Dubai fa appello a un’estetica più discreta, fatto che spiega il successo della sfumatura chiamata rose pink.
Il colore più richiesto tra le viaggiatrici in rotta verso Shanghai è lo sheer coral, una tonalità trasparente di corallo: per Parigi, l’approccio nude londinese cambia leggermente virando sulla tinta dusky rose, una sorta di rosa.
Milano e Atene si vestono di bright fuchsia; per le vacanze romane, le viaggiatrici scelgono il tono golden plum.
Una novella cartina geografica (nei colori del rossetto, of course!) e risultati divertenti e interessanti ai quali Heathrow ha dedicato un altro piccolo (è proprio il caso di definirlo tale) omaggio: ha commissionato cinque rossetti sui quali sono state intagliate altrettante attrazioni internazionali. Le opere, quelle che vedete nella foto qui sopra, sono state meticolosamente realizzate a mano da un artista specializzato in micro-scultura, Hedley Wiggan.
Londra è rappresentata dal Big Ben e poi ci sono quattro tra le destinazioni più visitate da coloro che sono in partenza da Heathrow: Parigi con la Tour Eiffel, Dubai col grattacielo Burj Khalifa, Shanghai con l’omonima torre e New York con la Statua della Libertà. I colori scelti sono, ovviamente, quelli identificati dallo studio.
Insomma, parafrasando il titolo del famoso romanzo di Jules Verne, potrei concludere con un’affermazione: questo è il giro del mondo, anzi, degli aeroporti, in 50 rossetti.

Manu

Se volete leggere tutto lo studio cliccate qui: Heathrow Lipstick Colours of the Year Report.
Una donna che ha contributo a fare la storia del rossetto: Elizabeth Arden raccontata da me qui.

Il Divertissement secondo Agnese Del Gamba

Ci sono parole che mi affascinano, mi incuriosiscono e mi divertono per la loro capacità di disegnare scenari molto ampi: prendete, per esempio, divertissement.
È presa in prestito dal francese e significa divertimento: dal punto di vista storico, il termine indicava danze o canzoni inserite in opere e balletti francesi del XVIII secolo. Il divertissement era collocato tra gli atti o alla fine dello spettacolo ed era connesso al soggetto del lavoro: era quindi propriamente un momento di divertimento intelligente.
In seguito, il termine è passato ad indicare composizioni letterarie o artistiche di tono leggero che nascono come divertimento dell’autore; oggi, si utilizza per indicare un’attività anche impegnativa ma fatta per piacere o per svago e divertissement è anche il prodotto che ne deriva.
Non potrebbe dunque esistere nome più adatto per il lavoro di Agnese Del Gamba.
Gli ingredienti del suo lavoro e del suo brand sono l’estro, la creatività e l’abilità delle sue mani: da questo mix nascono i suoi Divertissement, oggetti da indossare o fatti per arredare.
Agnese idea e costruisce bracciali, anelli, collane, orecchini, cerchietti per capelli e fascinator ma anche lampadari, talvolta su ordinazione: in ogni sua creazione, filati e tessuti di pregio, bottoni e passamaneria di antiquariato prendono vita in modo sempre diverso e suggestivo sposando materiali di riciclo come il PET, ovvero il materiale del quale sono fatte le bottiglie che usiamo e che la maggior parte di noi butta, senza pensarci due volte, nei rifiuti (spero almeno differenziati).
Il suo Divertissement è un piccolo piacere, un oggetto unico nella forma e nel materiale: cose che avrebbero terminato il loro ciclo vitale – accantonate e talvolta bollate come inutili, la peggiore onta nella società moderna – assumono una nuova dignità e una nuova funzione.
A mio avviso, c’è grande poesia nel saper creare oggetti capaci di innalzare il morale e di riempire di letizia la nostra vita partendo da cose umili, semplici, antiche oppure scartate. E mi piace il fatto che Agnese onori in pieno il nome che ha scelto per il suo brand, mi piace che si diverta e che sappia far divertire.
Come accennavo, lavora anche su ordinazione e per me ha pensato a un tocco di Toscana (la sua regione) e ai prati, ricordando quelli della sua infanzia.
È nata così una parure che porta il mio nome, Emanuela, composta da collana e anello – quelli che vedete qui sopra. La collana è un prato con papaveri e fiordaliso, con la base in plexiglas, francobolli di antiquariato e piccole murrine: i fiori, molto realistici, sono stati realizzati lavorando il PET. Tra foglie e petali, ci sono perfino una coccinella e una lumachina. L’anello è un papavero che orna graziosamente di rosso la mano.
Quando indosso la mia parure, chiudo gli occhi e vedo Agnese bambina, felice nell’orto del nonno, intenta a osservare piante e fiori.
Ho sempre pensato che il divertimento sia fondamentale: quello firmato Divertissement è intelligente, equilibrato e pieno di garbo.

Manu

Qui trovate la pagina Facebook di Divertissement e qui il profilo Instagram.
Potete trovare Agnese anche alla Fiera Antiquaria di Arezzo, ogni prima domenica del mese e sabato precedente.
E proprio lì, Agnese ha recentemente incontrato Veronika Richterová, artista di origine ceca che crea sculture col PET e che partecipa a mostre in tutto il mondo (le più recenti a Cuba e Taiwan). Indovinate un po’? Veronika si è fermata a osservare il lavoro di Agnese e chissà che presto una delle sue creazioni non finisca nella collezione dell’artista che, oltre alle sue opere, ha raccolto oltre 3.000 oggetti in plastica da 76 paesi diversi (se siete curiosi, date un occhio qui e qui).

Chimajarno, aggregare ricordi sotto forma di bottoni

Bottoni.
Piccoli, grandi, bianchi, colorati, di tante forme e materiali diversi.
Tutti con un unico scopo: unire ciò che nasce diviso. E lo fanno da molto prima che nascesse la zip.
Ricordo la scatola dei bottoni di mia mamma: quand’ero piccina, mi incuriosiva indicibilmente e non perdevo occasione di sbirciarci all’interno e di toccare con delicatezza quelli che mi apparivano come piccoli tesori.
Quella scatola mi affascinava a tal punto che oggi ne possiedo a mia volta una tutta mia, nonostante io non sia particolarmente incline al cucito: all’interno, i bottoni sono suddivisi per colore – è una mia piccola mania quella di fare la suddivisione per colori, la faccio anche negli armadi.
Ma, evidentemente, quella per i bottoni non è solo una mia passione.
Tra i tanti libri che hanno accompagnato la mia fanciullezza, ne rammento distintamente uno, La guerra dei bottoni (La Guerre des boutons), romanzo dello scrittore francese Louis Pergaud nel quale i bottoni diventano il bottino della guerra tra due gruppi di bambini in un piccolo paese.
In tempi recenti, sono rimasta colpita dall’esistenza di un Museo del Bottone a Vigorovea, in provincia di Padova, e di un altro a Santarcangelo di Romagna, in provincia di Rimini.
Esistono modi di dire, come attaccare bottone.
E poi ci sono persone come Chiara Trentin, una creativa che ha fatto dei bottoni la materia prima della propria arte.
Chiara ha dato vita al brand Chimajarno e fa gioielli o meglio aggregazioni indossabili di bottoni, come le chiama lei, come quella che potete ammirare qui sopra.
Sono attratta dalle creazioni di Chiara fin dalla prima volta in cui ho potuto ammirarle da vicino: ora, resto incantata davanti a un suo progetto al quale ha dato il nome di Aggregare ricordi sotto forma di bottoni.
Ecco come lo racconta lei stessa: “Ci sono percorsi, passi… Ci sono incontri, occhi… Ci sono racconti, storie… Ci sono sensazioni, emozioni… Ci sono idee, sogni, oggetti… E  ci sono forme differenti per tenere legato il nostro vissuto e i ricordi che non vogliamo perdere… Mi ritrovo tra le mie scatole e i miei vasi colmi di tutto ciò che ha suscitato qualcosa in me, piccole cose, sassi, conchiglie, oggetti trovati a terra e, dopo 10 anni dalla nascita di Chimajarno, provo a mettere assieme ricordi che prendono forma nella mia familiarità: il bottone”.
Il progetto di Chiara mira a coinvolgere gli altri: “Provo a chiedere il vostro intervento/partecipazione per aggregare quanti più ricordi possibili: vi chiederei di consegnarmi un bottone o più e se volete aggiungete una parola, una storia, un aneddoto, una cosa o quant’altro legato o meno al bottone”.
“A fine anno tutto ciò che avrò raccolto – assieme a bottoni, oggetti e ricordi già da tempo “catalogati” – sarà esposto in una prima mostra presso un museo: mi piacerebbe poi che tutto ciò continuasse e trovasse spazio in altri luoghi”, conclude Chiara.
A me è sembrato un progetto meraviglioso e così ho deciso di parlarne nella Pillola di oggi: amo l’idea di aggregare ricordi in questo modo perché – come ho scritto in principio – il bottone nasce proprio per unire e poi trovo splendida l’idea di ricavarne una mostra.
E voi? Volete far parte di questo progetto condiviso?
Io sto già pensando a quale bottone e a quale ricordo consegnare a Chiara.

Manu

Qui trovate il blog e qui la pagina Facebook di Chimajarno.
Per partecipare ad Aggregare ricordi sotto forma di bottoni, trovate tutte le informazioni e i dettagli qui e qui.

Per curiosità: se vi capita, fate visita al Museo del Bottone di Vigorovea (qui e qui) oppure al Museo di Santarcangelo di Romagna (qui, qui e qui).

Per dire ciao a Elio Fiorucci firmiamo la petizione

Il dolore non chiede permesso: bussa prepotente alla porta del cuore e si intrufola senza lasciarci il tempo di sprangarci all’interno.
E la morte non va per il sottile, miete umili e arroganti, poveri e ricchi, giovani e anziani.
Solo pochi giorni fa, piangevo la morte di un mio giovanissimo amico: la sofferenza non accenna a diminuire e anzi viene riaccesa dalla scomparsa di uno dei miei idoli, Elio Fiorucci.
Fiorucci aveva compiuto da poco 80 anni ma pare non avesse problemi di salute: forse è stato un malore improvviso a portarlo via.
La morte inaspettata unisce così due vite agli antipodi, una – quella del mio amico Emanuele – appena sbocciata, l’altra – quella di Fiorucci – lunga e piena di successi; unisce due persone che sono state molto amate e che lasciano un vuoto mancando esattamente a una sola settimana di distanza l’una dall’altra.
Sono talmente scioccata dalla morte di Emanuele che avevo promesso a me stessa che non avrei più scritto della scomparsa di nessuno, ma la vita è impertinente e la morte lo è ancora di più e spesso fa di noi dei bugiardi, come in questo caso.
Elio Fiorucci ha incarnato uno dei miei primi approcci alla moda: il suo splendido negozio in San Babila, innovativo e diverso da qualsiasi altro, colpiva così tanto la mia fantasia di adolescente che credo lo porterò nel cuore per tutta la vita.
Nei cassetti della biancheria ho almeno tre magliette coi suoi famosissimi angeli: due sono recentissime, regali ricevuti tramite il suo ufficio stampa da quando la moda è diventata non solo una passione ma anche un lavoro. Non so se avrò più il coraggio di indossarle, credo che resteranno conservate come reliquie.
Veneravo Fiorucci a tal punto che, pur avendolo incontrato parecchie volte negli ultimi anni in occasione di vari eventi, non ho mai avuto il coraggio di rivolgergli la parola per dirgli cosa rappresentasse per me. Ora me ne pento.
Ciò che mi ha fatto decidere di scrivere questo piccolo post infrangendo i miei propositi è una notizia che ho letto ieri: sul sito change.org è partita una petizione per trasformare Galleria Passarella, il luogo in cui si affacciava l’iconico store milanese, in un luogo dedicato allo stilista-imprenditore.
La richiesta nasce dal fatto che Fiorucci “ha rappresentato la moda, il design, la creatività ed è stato testimonial assoluto della nostra città: un uomo di grande sensibilità e di grande coerenza umana e progettuale, oltre che figura di spicco a livello internazionale”.
Non c’è nulla da aggiungere se non che io ho già firmato: al momento, mi sembra l’omaggio migliore.
Un paio di anni fa, in un post dedicato a Ottavio Missoni, scrissi di non avere il coraggio di dare del tu a un signore di 92 anni che non era un parente né un amico: ecco, chiamatemi incoerente ma oggi riesco a dire solo ciao Elio.
Grazie per i primi semi (quelli dell’amore per moda, design e bellezza) che hai piantato nella mia testa e nel mio cuore. Sono poi fioriti, sai.

Manu

Per firmare la petizione su change.org: qui

Uno dei miei incontri silenziosi con Elio Fiorucci: qui. Un post in cui raccontavo una piccola parte della sua storia: qui.

Il gioiello crea dialoghi tra Italia e Giappone

Progetto Dialoghi: due creazioni e le rispettive ispirazioni degli artisti

L’amicizia è un ponte, mi disse una persona tanti anni fa.
Allora ero giovanissima e non so quanto in quel momento veramente compresi il significato profondo dell’affermazione: comunque mi colpì, tanto che me la ricordo con precisione ancora oggi, fase della mia vita in cui – credo – sono più pronta a coglierne la verità nonché le profonde sfumature.
Sì, l’amicizia crea ponti importanti e fa in modo che persone diverse tra loro per educazione, cultura e tradizioni possano costruire un dialogo: lo fa attraverso molti strumenti e stavolta è il gioiello contemporaneo a creare un nuovo legame tra Oriente e Occidente.
Talvolta, quando ci si trova a dialogare con persone di lingua diversa, viene spontaneo usare le mani muovendole in gesti riconoscibili: un maestro orafo spinge la propria gestualità ben oltre, le sue mani si muovono e creano oggetti capaci di parlare, abbattere barriere e gettare ponti. È da questa idea che è nato il progetto Dialoghi.
Frutto di anni di lavoro tra i direttivi di AGC (Associazione Gioiello Contemporaneo) e JJDA (Japan Jewellery Designers Association), il progetto riesce a legare due realtà apparentemente lontane – l’italiana e la giapponese – attraverso il potenziale artistico intrinseco nel gioiello contemporaneo.
Quaranta autori italiani (membri di AGC) e quaranta giapponesi (membri di JJDA) sono stati selezionati e gemellati: ogni coppia ha prodotto due pezzi e ciascun membro si è ispirato alla cultura del paese del proprio collega. Gli autori si sono dunque conosciuti e confrontati, si sono scambiati immagini d’arte e hanno avviato il processo creativo che culmina ora in una serie di eventi espositivi tra Italia e Giappone.
Al termine delle varie esposizioni, all’interno di ogni coppia ci sarà uno scambio: ogni partner donerà all’altro la propria creazione allo scopo di sottolineare ulteriormente l’intrecciarsi di una nuova conoscenza, di un legame intimo, di una nuova amicizia.
E a proposito di amicizia, mi piace sottolineare che il prossimo anno ricorrerà l’anniversario dei 150 anni di quella esistente proprio tra Italia e Giappone: il primo Trattato di Amicizia e Commercio fra il Regno d’Italia e l’Impero del Giappone fu infatti firmato nel 1866 e Dialoghi è anche uno splendido modo per portare avanti questo ormai storico rapporto.
Il progetto è stato inaugurato ufficialmente il 3 luglio presso l’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo: sarà poi il Museo d’Arte di Kofu a ospitare la mostra dal 19 al 28 settembre, mentre a ottobre ci sarà la prima tappa italiana al Museo d’Arte Orientale di Roma.
Nel 2016, i lavori si sposteranno tra il Museo del Bijou di Casalmaggiore (del quale ho già parlato precedentemente), il Museo del Mediterraneo di Livorno e la Fondazione Cominelli di Cisano di San Felice, in provincia di Brescia: l’itinerario si chiuderà infine a Padova nella cornice dell’Oratorio di San Rocco.
Sono entusiasta di tutto ciò: il Giappone mi incuriosisce enormemente (e sogno di andarci) e sapete quanto io ami il gioiello e quanto apprezzi la sua dimensione contemporanea, quindi non vedo l’ora di avere l’occasione di visitare una o più delle tappe italiane. Sono curiosa di conoscere le ispirazioni e i riferimenti suggeriti dagli scambi e di vedere ciò che ne è nato.
E infine, concedetemi un piccolo moto d’orgoglio: tra gli artisti italiani selezionati, ce ne sono alcuni che conosco personalmente e qualcuno che è già apparso qui sul blog. Un applauso particolare ad Anna Maria Cardillo, Clara Del Papa, Lucilla Giovanninetti, Chiara Scarpitti e Silvia Valenti nell’attesa di conoscere presto tutti gli altri, di persona o attraverso i loro lavori che, sicuramente, saranno in grado di creare nuovi ponti. E nuova amicizia.

Manu

AGC Associazione Gioiello Contemporaneo: qui il sito e qui la pagina Facebook.
JJDA Japan Jewellery Designers Association: qui il sito e qui la pagina Facebook.
Tutti i dettagli del progetto Dialoghi: qui.
Per chi ha la fortuna di poter andare in Giappone: qui il sito Museo d’Arte di Kofu.
Per le tappe italiane: qui il Museo d’Arte Orientale di Roma, qui il Museo del Bijou di Casalmaggiore, qui il Museo del Mediterraneo di Livorno, qui la Fondazione Cominelli e qui l’Oratorio di San Rocco di Padova.

Qui trovate il mio incontro con Anna Maria Cardillo, qui quello con Chiara Scarpitti, qui quello con Lucilla Giovanninetti e qui trovate un guest post scritto da Silvia Valenti.

L’unico frutto dell’ironia è sempre la banana

Immagino che mi attirerò qualche antipatia, ma devo confessare che il calcio non mi appassiona granché e non perché io non sia una sportiva.
Ho un autentico amore per il nuoto, per esempio, e mi piace moltissimo l’atletica leggera: sono sinceramente ammirata davanti ad atleti che compiono imprese epiche tipo le attraversate del deserto a piedi.
E mi piacciono gli sport un po’ ruvidi, come il rugby o l’hockey sul ghiaccio. Ruvidi solo in campo, però: trovo che il cosiddetto terzo tempo del rugby, il momento conviviale in cui compagni di squadra e avversari vanno a farsi una birra insieme, sia espressione di grande civiltà.
Al contrario, il calcio è talvolta collegato a episodi negativi: disordini negli stadi, episodi di becera intolleranza e perfino morti.
Non capirò mai tutto questo né come si passi da quello che dovrebbe essere un momento di svago e festa a momenti di bassissima umanità: fin da piccola, mi è stato insegnato il valore assoluto dell’impegno e del riconoscere la propria sconfitta. Lavorare sodo, ma anche divertirsi, perché non c’è vittoria onorevole senza un onorevole avversario.
L’anno scorso, mi sembra fosse aprile del 2014, rimasi colpita dall’ennesimo fattaccio avvenuto in uno stadio: il calciatore Dani Alves si apprestava a battere un calcio d’angolo quando dagli spalti volò una banana diretta verso di lui.
Il brasiliano, però, non fece una piega: raccolse la banana, la sbucciò e ne mangiò un pezzo.
L’episodio ha fatto il giro del mondo amplificato dal web: Alves ha dato la migliore risposta possibile a coloro che volevano dargli della scimmia mangiabanane solo perché è di colore. Per questo ha tutta la mia ammirazione: bisogna ridere delle persone ridicole e i razzisti lo sono, sono ridicoli e tristi.
Si sa che il sistema moda è sempre pronto a captare le tendenze della nostra società rivelandosi un buon termometro dei fatti che colpiscono l’immaginario collettivo e così ha fatto suo il periodo di celebrità vissuto dal giallo frutto e l’ha piazzato ovunque: la banana ha invaso capi di abbigliamento e si è impossessata degli accessori più svariati.
Ebbene sì, dopo i meravigliosi turbanti e i copricapi con fiori e frutta di Carmen Miranda, la banana torna oggi in auge, anzi, torna di moda.
Nonostante io non sia un’amante dei trend – lo sapete – ammetto che questo mi diverte per via del suo lato altamente ironico: quello che voleva essere un gesto di disprezzo si è trasformato in un allegro sberleffo.
E, tra le varie proposte, scelgo un brand che seguo da un po’, ovvero Maison About.
La loro collezione primavera / estate è ricca di capi divertenti: la banana è proposta in tanti colori – dal classico giallo al rosa, verde e viola – e ci sono gonne danzanti e maglie per noi donne nonché felpe e costumi taglio boxer per gli uomini.
Visto che ho dichiarato più volte quanto mi diverta il fatto di pescare nell’armadio maschile, per illustrare questo post ho scelto non pezzi femminili bensì maschili: come interpreterei i boxer qui sopra?
Li farei diventare degli ironici e comodi bermuda aggiungendo una semplicissima t-shirt bianca, un paio di sandali rasoterra, un cappello anch’esso bianco e un paio di orecchini colorati. Non serve altro.
Può essere un outfit carino per passeggiare sul lungomare o per lanciarsi in un giro di shopping al mercato con le amiche: saremo fresche, carine, allegre e con quel tocco di ironia che non dovrebbe mai abbandonarci.

Manu

Qui trovate il sito di Maison About (e qui l’e-shop con la linea P/E 2015), qui la pagina Facebook, qui Twitter e qui Instagram. Qui il mio articolo sulla collezione A/I 2015-16.

P.S.: A proposito del gesto dello sciocco tifoso. Pochi giorni fa, ho scritto un post su eleganza e volgarità sostenendo che la massima volgarità è quella dei cattivi pensieri: ecco, questo tifoso ha perfettamente dimostrato la mia teoria.

Coco Chanel e la lotta (continua) contro la volgarità

È un giorno qualunque di mezza estate.
Sono felice: faccio parte di una commissione d’esame e sto ascoltando ragazzi in gamba, pieni di talento e passione.
Sfoglio le loro tesi una dopo l’altra e trovo tanti spunti interessanti, nuove idee che si posano come semi nel terriccio fertile della mia testa.
Poi, d’un tratto, leggo una frase, quella della foto qui sopra: scatto velocemente col mio iPad, affascinata.
Abitualmente, non sono il tipo di persona che condivide su Instagram o su Facebook le frasi celebri, eppure questa mi colpisce con forza.
Tutto ciò è successo pochi giorni fa e oggi mi ritrovo a pensare ancora a quelle parole, alla loro forza e alla verità che per me rappresentano.
Penso da sempre che il lusso non risieda in ciò che è materiale; purtroppo, però, oggi si confondono molto spesso le cose e molti ricercano il lusso proprio nella sfacciata ostentazione di fasti e ricchezze.
Un errore grossolano: così si scivola nella volgarità, mentre – come affermava saggiamente Coco Chanel – il lusso esiste solo dove la volgarità è assente e solo dove c’è invece eleganza.
Usando il termine eleganza, mi riferisco al suo senso puro: non dimentichiamo che tale parola deriva dal latino eligere, cioè scegliere.
L’eleganza più autentica, dunque, sgorga da un’azione esatta: il sapere scegliere, l’eleggere. È un’arte di vivere e di pensare che va ben oltre ciò che indossiamo.
Diana Vreeland, altra importantissima icona della moda e figura autorevole che aveva dimestichezza col concetto di eleganza, non credeva, per esempio, necessariamente nel cosiddetto buon gusto. “Abbiamo tutti bisogno di un po’ di cattivo gusto. È la mancanza totale di gusto che non condivido”, era solita ripetere.
La volgarità non è (o non è solo) un vestito di poco gusto, qualche parolaccia, un’esternazione o una battuta poco felice: è un concetto molto più sottile, strisciante, subdolo, insinuante. Per questo spesso ci imbroglia e ci distrae.
La volgarità peggiore è quella d’animo, dei cattivi pensieri, dei cattivi sentimenti e tale volgarità – ahimè – ha un’ampia gamma di sfumature.
Si nasconde nell’esibizionismo, nell’ostentazione, nell’eccesso.
Nell’arroganza, nella prepotenza, nella tracotanza, nella superbia, nella presunzione.
Nella disonestà, nella scorrettezza, nella mediocrità, nella maldicenza, nella meschinità, nell’invidia.
Quanto aveva (e ha) ragione Mademoiselle Coco, la volgarità è una gran brutta cosa e va combattuta, senza sosta, senza arrendersi.
Nel mio piccolo, ci provo: come dice lei, rimango in gioco per combatterla e provo a tenere lontani dal mio animo quei sentimenti, provo a tenere lontane le persone che ne sono portatrici.
Non è facile, ma almeno ci provo. Con tutta me stessa.

Manu

Gabriella Giuriato e le Geometrie di Vetro

Ipazia di Gabriella Giuriato nei suoi due lati

Amore per la vita e per la bellezza senza confini né fisici né mentali: è ciò che mi piacerebbe essere in grado di trasmettere attraverso questo spazio web.
La vita riesce sempre a sorprendermi attraverso le sue tante manifestazioni e forme: oggi, in questa nuova Pillola di mondo, assume quella delle opere di Gabriella Giuriato, artista nella quale mi sono imbattuta grazie a Claudia, compagna di un recente viaggio.
(E, come sempre, tengo a sottolineare l’importanza della complicità e del saper fare squadra tra noi donne.)
In concomitanza col famoso Festival dei Due Mondi di Spoleto, Gabriella Giuriato è ospite della Galleria POLID’ARTE: fino al 19 luglio, la mostra Geometrie di vetro presenta una nuova sfaccettatura della continua ricerca estetica di questa artista.
Gabriella, veneziana, si è fatta conoscere per le sue sculture sferiche lavorate a collage: ha deciso di estendere la tecnica a un materiale strettamente legato alla sua città, ovvero il vetro.
Dopo avere steso un disegno preparatorio, Gabriella ha disposto i motivi geometrici in tinte contrastanti in vetrofusione su una lastra anch’essa di vetro, tagliata a disco: il tutto è stato poi fuso in forno.
L’operazione, essendo sperimentale, ha richiesto tempo, energie, riflessioni e prove, ma ha infine dato ottimi risultati: a lavoro felicemente completato anche grazie all’abilità e all’esperienza dei maestri vetrai della ditta Ragazzi di Murano, i dischi si sono confermati una riuscita e inedita espressione della sensibilità artistica di Gabriella Giuriato e del suo particolare utilizzo del colore.
In queste sue creazioni, il monocolore dello sfondo fa risaltare l’imprevedibilità e l’armonia dei soggetti in rilievo: non solo, essi si propongono diversi per forma sulle due facce.
I dischi possono infatti essere visti da entrambi i lati, rivelando incastri di motivi geometrici nonché un riuscito effetto di cromie in una sorta di gioco positivo – negativo.
Per completare la mostra, Gabriella ha anche elaborato dei tondi in legno sulle cui superfici sono nati affascinanti collage in vetro.
I dischi di Gabriella portano nomi di famosi uomini di scienza – Euclide, Pitagora, Archimede, Talete: l’opera che ho deciso di mostrarvi per illustrare questo post porta il nome dell’unica donna tra loro, Ipazia.
La mia scelta è tutt’altro che casuale: sono stata colpita dal colore utilizzato, forte e pieno di vita, e la figura di Ipazia mi affascina fortemente.
Vissuta nell’Antica Grecia, Ipazia era una matematica, astronoma e filosofa che brillava per il suo intelletto e per le sue intuizioni: la barbara uccisione ad opera di un gruppo di fanatici ha fatto di lei una martire della libertà di pensiero e un eterno simbolo che nei secoli è stato celebrato in romanzi, poesie, opere teatrali, quadri e, ai giorni nostri, in un film (Agorà del regista Alejandro Amenábar).
Il libero pensiero, il fanatismo, le donne abusate: tanti argomenti attuali.
E pensate a quante donne ci sono in questa storia: Gabriella, Ipazia, Claudia, io che ho provato a raccontarvi il tutto e tutte coloro che leggeranno e che – spero – avranno voglia di saperne di più, di persona o attraverso il web.
Ovviamente, gli uomini sono più che benvenuti.

Manu

Mostra Geometrie di vetro di Gabriella Giuriato
POLID’ARTE Centro Culturale di Annamaria Polidori
Via Duomo 27 – Piazza della Signoria 5
A Spoleto (PG) fino a domenica 19 luglio 2015
Orari d’apertura: da mercoledì a domenica 10:30 – 13 e 16:30 – 20 (chiuso lunedì e martedì)
Qui trovate il sito POLID’ARTE e qui il sito di Gabriella Giuriato
Un grazie particolare a Claudia Sugliano per avermi introdotto Gabriella Giuriato

Ridefinire il Gioiello 2015, un viaggio intorno al mondo

Photo credit 4ever.eu

Chi legge abitualmente o saltuariamente questo blog lo sa: mi piace chiacchierare.
La comunicazione verbale ha grande importanza per me e, proprio perché amo le parole, ne ho grande rispetto: devono essere scelte con cura, non devono essere abusate e non devono essere vuote.
E sapete cos’altro penso? Le parole sono importanti nella misura in cui vengono realizzate attraverso i fatti, ovvero è inutile fare grandi discorsi se poi non siamo capaci di realizzarli in gesti concreti.
Parlo di continuo di talento, passione e saper fare: per me non sono solo chiacchierate teoriche, cerco di dare un contributo reale ogni volta che posso.
Sono quindi molto orgogliosa di dare ancora una volta il mio sostegno a Sonia Patrizia Catena e al suo progetto Ridefinire il Gioiello: così com’è accaduto per l’edizione 2014, anche quest’anno sarò partner del concorso e attribuirò un premio a un vincitore da me scelto.
Ridefinire il Gioiello ha l’obiettivo di diffondere e valorizzare una nuova estetica del gioiello contemporaneo tramite la ricerca di materiali innovativi e sperimentali: per il 2015, il concorso va nella stessa direzione di Expo, la grande manifestazione che porta a Milano cibo, tradizione, cultura e colori di tantissime nazioni.
Oltre al cibo, anche l’abbigliamento e i gioielli parlano di luoghi e popoli: il tema del concorso è proprio questo, creare un gioiello dell’altrove, di un mondo diverso da noi, in grado di racchiudere in sé l’esperienza del lontano e dello sconosciuto.
Il gioiello ha sempre raccontato e documentato usi e costumi, spesso con una funzione e una valenza sociale e culturale: Ridefinire il Gioiello 2015 vuole dunque porre il monile come portatore di sfumature, da quelle della terra a quelle del mare passando per ogni variabile offerta dalla Natura.
Al concorso possono partecipare designer, creativi e artigiani con gioielli realizzati mediante le tecniche più disparate: condizione fondamentale è che vengano utilizzati materiali sperimentali e innovativi, organici o inorganici. Lo scopo è quello di fare appello a materiali locali nonché a tradizioni, memorie, ricordi e storie di viaggi.
Non ci sono limiti di età per chi si candida e le iscrizioni sono aperte fino al 15 settembre.
Il concorso culminerà in una mostra la cui inaugurazione si terrà presso il nuovo MUMI – Museo Milano nelle giornate del 29, 30 e 31 ottobre 2015: la prima giornata vedrà la proclamazione dei vincitori dei premi speciali, incluso il mio che consisterà in una monografia dedicata qui su A glittering woman.
La mostra è itinerante e seguiranno dunque ulteriori tappe che continueranno per diversi mesi.
A mio avviso, il tema è molto stimolante: apre un mondo di possibilità e spero che in molti vorranno approfittarne e mettersi alla prova per dimostrare fantasia e abilità.
Non vedo l’ora di visionare i progetti presentati e ringrazio Sonia per la fiducia che, ancora una volta, concede a me e al mio spazio web: sono un’inetta o quasi con le mani, ma cerco di dare il mio contributo al talento raccontandolo e diffondendolo.

Manu

Per prendere visione del bando completo con condizioni e regole cliccate qui oppure scrivete a circuiti.arte@gmail.com oppure andate sulla pagina Facebook dedicata al concorso.
Qui trovate il sito di Ridefinire il Gioiello, qui la pagina Facebook e qui Twitter.
Io & Ridefinire il Gioiello: qui trovate il mio articolo sul concorso 2014 e qui quello su Alessandra Vitali, la designer che ho deciso di premiare. Chi sarà il vincitore 2015?

Micol Fontana e Marie-Louise Carven, lunga vita alla moda

Micol Fontana e Marie-Louise Carven

Esplorando questo blog, qualcuno potrebbe forse pensare che nutro una certa passione per i necrologi, dato che ho scritto in diverse occasioni di persone scomparse: in realtà, mi preme celebrare la vita più che piangere la morte.
Mi interessa che lo straordinario patrimonio artistico e umano delle persone che onoro non vada perso “come lacrime nella pioggia”, per citare la battuta di un celebre film di Ridley Scott.

Ciò che mi preoccupa è la voracità con cui oggi consumiamo le notizie, tanto che esse diventano obsolete velocemente e spesso vengono dimenticate prima ancora che ci sia concesso il tempo necessario per interiorizzarle.
Per questo desidero parlare di Marie-Louise Carven e Micol Fontana, due grandi personalità scomparse recentemente: a unirle è il fatto di aver consacrato tutta la loro esistenza alla moda e di aver avuto una lunga vita ultracentenaria.

Marie-Louise Carven, nome d’arte di Carmen de Tommaso, era la fondatrice dell’omonima maison nata nel 1945.
La sua storia ha origine da un complesso fisico, quello della bassa statura: era alta 1,55 e, dopo aver studiato architettura e design d’interni all’Accademia di Belle Arti, spostò la sua attenzione verso la moda iniziando a disegnare abiti per sé e per le amiche con l’obiettivo di valorizzare le donne minute.
Madame Carven sapeva anche ridere di quel suo difetto: pare dicesse di sé stessa “sono alta quanto un gambo di cavolo”.
Dopo aver fondato il suo marchio, si impose in breve tempo grazie allo stile sobrio, pulito, comodo.
Fu tra le prime a sfilare all’estero e, precorrendo i tempi di molti decenni, introdusse nella moda motivi e tessuti etnici: nell’estate del 1949 lanciò una collezione ispirata all’Africa, poi vennero quelle ispirate all’Egitto, alla Turchia e all’Australia. Nel 1960, la maison Carven fece le divise per ben quindici linee aeree.
Madame Carven non smise di lavorare fino al 1993, alla veneranda età di 84 anni: si è spenta a Parigi il giorno 8 giugno a 105 anni.

La figura di Micol Fontana è saldamente legata a quella delle sorelle Zoe e Giovanna: mossero insieme i primi passi nella piccola sartoria della mamma, ma ben presto le Sorelle Fontana – l’appellativo che le ha caratterizzate per tutta la vita – sbarcarono a Roma. E il lavoro a tre si rivelò una formula vincente.
Le loro prime clienti furono le signore dell’aristocrazia; poi, nel dopoguerra, il successo di Cinecittà portò le dive di Hollywood che si innamorano dei loro capi raffinati e meravigliosamente realizzati.
Nel 1949, l’atelier Fontana trionfò grazie all’abito di nozze realizzato per la bella Linda Christian sposa a Roma del famoso attore Tyrone Power: fu proprio Micol a intuire l’importanza dei mercati stranieri e da allora diventò ambasciatrice nel mondo del marchio di famiglia. “Non sapevo una parola di inglese, ma per noi parlavano le collezioni”, ricordò qualche anno fa in un’intervista.
Micol Fontana credeva fermamente nei giovani: nel 1994, venne creata la Fondazione che porta il suo nome, nata proprio per aiutare le generazioni di nuovi stilisti che qui possono beneficiare di un archivio di abiti dal 1940 al 1990 e di una vasta raccolta di figurini nonché di una biblioteca, di un’emeroteca e di un fondo fotografico. Per festeggiare i suoi cento anni, la signora Fontana aveva pensato a un concorso per permettere ad alcuni giovani di entrare in grandi aziende della moda italiana.
La stilista, ultima rimasta del mitico trio, avrebbe compiuto 102 anni il prossimo 8 novembre: si è spenta il 12 giugno a Roma, a pochi giorni di distanza da Madame Carven.

Molti giornali hanno scritto che con loro se ne va un pezzo importante di moda: sono d’accordo, ma mi piace pensare che verranno ricordate e che la loro eredità straordinaria verrà raccolta da nuovi e promettenti talenti, gli stessi nei quali Micol Fontana aveva una fiducia incrollabile.

Manu

Il mio omaggio a Micol Fontana in occasione del suo 100° compleanno: qui.
Il sito della Fondazione Micol Fontana: qui.
Una bellissima video intervista a Micol Fontana: qui.

Laura Bosetti Tonatto e il profumo della cultura

Un ritratto di Laura Bosetti Tonatto

Credo che qualsiasi lavoro svolto con onestà abbia pari dignità, tuttavia è innegabile il fatto che esistano mestieri che possiedono un fascino del tutto particolare.
Penso, per esempio al naso, ovvero la persona capace di realizzare profumi traducendo idee e ispirazioni in scie olfattive reali.
Questa professione è nata migliaia di anni fa, sembrerebbe addirittura più di 4000: per farla, servono basi tecniche, chimiche e scientifiche, un bagaglio di conoscenze artistiche e – ovviamente – una spiccata sensibilità.
Il punto di forza di un naso è la memoria olfattiva: mentre una persona è generalmente in grado di memorizzare circa 1000 tra odori e sentori, un naso, invece, è in grado di ricordane anche 3000.
Ecco perché questa professione mi affascina: si tratta di una sorta di moderno alchimista dotato di grandi capacità, passione, cultura e preparazione.
Tra i nasi famosi, sono stata colpita dalla figura di Laura Bosetti Tonatto: conosciuta in tutto il mondo, crea dal 1986 profumi per le maggiori case cosmetiche nonché fragranze su misura.
Dopo aver ideato un laboratorio culturale (Naso e Parnaso), aver collaborato a diverse mostre (tra le quali Caravaggio un quadro, un profumo per il Museo Ermitage di San Pietroburgo), aver realizzato un profumo su misura per la Regina Elisabetta II d’Inghilterra, Laura ha deciso di aprire un suo spazio a Roma, il varco verso un mondo affascinante e un po’ misterioso.
In questa occasione, ha presentato la collezione Essenzialmente Laura che comprende 39 differenti fragranze: tre sono dedicate al grande Leonardo da Vinci.
Leonardo fu una sorta di dandy del 1400: “dispensava consigli di stile, amava le essenze, i profumi, le stoffe preziose e i gioielli”, racconta Laura.
“Ci ha lasciato un’infinità di scritti con norme sull’igiene, la cura del corpo, la dieta e nel Codice Atlantico una serie di studi dedicati alla sua passione per la distillazione delle piante. Da qui ho ricavato la ricetta per tre fragranze a base di lavanda che simboleggiano altrettante stagioni dell’esistenza del raffinato Messer Lionardo che girava per Vinci con un eccentrico mantello rosa, assai più corto di come usava all’epoca: lavanda pura che lui sentiva da ragazzo camminando per le strade di Vinci; lavanda e rosa per l’età della piena bellezza; lavanda ed ambra per la maturità.”
Lo confesso, sono completamente affascinata: come dicevo in principio, sostengo con convinzione che esistano mestieri che possiedono qualcosa in più.
Provo tanta ammirazione per questa professionista e – permettetemelo – un pizzico di sana invidia: il suo lavoro profuma di cultura, in tutti i sensi.

Manu

Se anche voi siete affascinati dal lavoro di Laura Bosetti Tonatto, qui trovate il suo sito, qui le fragranze dedicate a Leonardo da Vinci e qui la pagina Facebook.
La Vetrina, il negozio monomarca di Laura, si trova in via dei Coronari 57 a Roma.

Saint Laurent e quel confine (sottile) tra magrezza e malattia

Giorni fa, ho letto una notizia che ha catturato la mia attenzione: in Inghilterra, una pubblicità della maison Saint Laurent è stata proibita in quanto la protagonista della foto è una modella troppo magra.
La Advertising Standards Authority (in acronimo ASA), l’agenzia indipendente che regola il mercato pubblicitario inglese, ha giudicato che la protagonista apparisse decisamente sottopeso, precisamente «the model appeared unhealthily underweight in the image».
L’immagine in bianco e nero era apparsa sull’edizione britannica della rivista Elle appartenente al gruppo editoriale Hearst: la modella, sdraiata per terra, indossa un abito corto che lascia vedere gambe lunghissime e magrissime.
Non so che impressione faccia a voi, ma vi dirò la mia opinione: più che uno scatto glamour, mi sembra che la ragazza sia a terra, in quella posizione, con gli occhi chiusi e le braccia sulla testa, perché ha perso i sensi.
La maison francese ha contestato le accuse, naturalmente, ma sembrerebbe non abbia dato una risposta ufficiale all’ASA la quale, nelle motivazioni a fronte della censura, scrive «the ad was irresponsible», ovvero «la pubblicità era irresponsabile».
Da tempo sostengo che nella moda regni una certa ipocrisia: tutti si schierano contro anoressia e disordini alimentari eppure molti stilisti, brand e maison continuano a scegliere ragazze magrissime, a volte scheletriche. Anzi, più che sceglierle creano proprio la richiesta.
Sono felice che l’ASA abbia preso questa posizione, facendo una scelta coraggiosa e dicendo a voce alta ciò che molti, guardando la foto, avrebbero pensato: quell’immagine è irresponsabile.
E mi auguro di non vederla mai su nessuna rivista italiana con lo scopo di pubblicizzare degli abiti (assurdo!): il fatto di averla pubblicata, nonostante la cosa mi ripugni, è una scelta precisa.
Ho voluto infatti dare spazio alla notizia per sottolineare che è sempre possibile fare scelte indipendenti e di rottura.
Business is business, si dice, ma ogni tanto – per fortuna – qualcuno ci mette anche un po’ di coscienza.

Manu

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