Riparto da un libro: Salvatore Ferragamo, il calzolaio dei sogni

Salvatore Ferragamo (didascalie e crediti in fondo)

Ho mandato in vacanza il blog parlandovi di un libro; riprendo oggi le mie narrazioni (bentornati ) parlandovi di un altro volume.

«Con più di tre miliardi di fatturato l’editoria è la prima industria culturale nazionale. Ma l’importanza del mondo del libro va ben al di là dei numeri: non c’è sviluppo economico, culturale e democratico senza una solida base di conoscenza, di sapere, di istruzione.»

È una dichiarazione di qualche mese fa di Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE): se mi sono appuntata le sue parole è perché sono completamente d’accordo con lui e credo che non esista modo migliore per spiegarvi perché ho deciso di ripartire presentandovi un libro.

L’importanza dei libri non conosce compartimenti o confini ed è trasversale poiché il loro valore immenso attraversa tutti i campi, ambiti e settori, comprendendo naturalmente anche la moda ed è un libro che parla proprio di moda e di Made in Italy quello che desidero introdurre oggi.

Esce infatti per Electa una nuova edizione, con una veste grafica ricercata, dell’autobiografia di Salvatore Ferragamo (1898-1960), pubblicata per la prima volta in inglese nel 1957 da George G. Harrap & Co., storico editore londinese.

Salvatore Ferragamo – il mitico Salvatore Ferragamo, direi – è un uomo che ha bisogno di poche presentazioni in quanto credo che il suo nome sia ben saldo nell’immaginario non solo di quanti amano la moda, quanto piuttosto di coloro che amano la bellezza, la qualità e il Made in Italy; è un uomo che aveva chiaro il suo destino determinato dalla sua vocazione.

«Sono nato per fare il calzolaio. Lo so e l’ho sempre saputo.» Leggi tutto

La Boccardi, perché consiglio il libro con la sua biografia

Vivere nel presente, guardando verso il futuro e conoscendo il passato: è questa la filosofia con la quale cerco di vivere.
Mi piace godere appieno e fino in fondo di ciò che vivo, giorno per giorno, con una proiezione e un pensiero verso ciò che vorrei, programmandolo grazie alla forza che – a mio avviso – tutti noi possiamo trarre dalle lezioni insite in ciò che è stato.
Credo dunque fortemente nel futuro e nella necessità del progresso e, allo stesso tempo, amo la tradizione.
Penso infatti che esistano valori assoluti e senza tempo che nemmeno progresso ed evoluzione dovrebbero cambiare.
Credo, in generale, nel duro lavoro e nel talento che ognuno di noi possiede e che si esprime in tanti modi; credo nello studio e nella curiosità intellettuale.
Per quanto riguarda nello specifico la moda, sono convinta che essa sia un potente linguaggio e che debba veicolare bellezza autentica.
Credo, che, come ogni linguaggio, abbia i suoi codici e che per padroneggiarla – e non esserne invece posseduti – occorra conoscere quei codici, come creatori e stilisti, come comunicatori e giornalisti, come clienti e fruitori.
Credo in quegli stilisti che sono prima di tutto sarti e che sanno costruire abiti veri e non solo operazioni fatte di clamore.
Credo in quei comunicatori e giornalisti che non sono solo presenzialisti e che hanno la voglia di raccontare davvero la moda.
Credo che tutti noi dovremmo essere clienti e fruitori che non si accontentano di trend e diktat, ma che cercano ciò che davvero li rappresenta per costruire un codice e un linguaggio che siano autentici.

In questo periodo, ho scritto (ancora una volta) di quanto io detesti il vuoto clamore (qui) nonché di quanto il cosiddetto sistema moda si trovi oggi ad affrontare importanti problemi (qui).
Riassumo il mio pensiero in un’unica frase: produciamo troppi vestiti, realizzati da troppi marchi spesso in maniera non sostenibile né socialmente né ambientalmente, venduti nella stagione sbagliata, infine scontati per fare spazio alla collezione successiva.
Ho scritto che le settimane della moda in versione digitale difficilmente potranno sostituire del tutto le sfilate in presenza perché la moda si nutre di tante sensazioni: come editor e blogger, ho sempre preferito vedere una sfilata dal vivo, da vicino, proprio per poter godere della parte sensoriale, il movimento di un abito, la caduta, il fruscio del tessuto, la luce e le ombre.
Senza considerare il fattore umano: le settimane della moda non sono solo il momento della passerella, sono altrettanto importanti (se non di più…) le interazioni che si svolgono oltre la passerella, gli incontri con i designer e con tutta una serie di figure come giornalisti, fotografi, buyer, incontri che garantiscono confronti interessanti e costruttivi. E, proprio per questo, ho sempre amato anche press day e presentazioni stampa, per la possibilità di toccare un tessuto, accarezzarlo, parlare con uno stilista, ascoltare la sua voce, farmi trasportare mentre racconta la genesi di una collezione. Leggi tutto

Qualche chiacchiera attorno alle cosiddette mascherine fashion…

Quella che vedete qui sopra NON è una foto attuale.

Risale al 18 settembre 2019 ed erano i giorni dell’edizione di Milano Moda Donna (ovvero la settimana della moda o fashion week) che rivelava le collezioni per la primavera / estate 2020.
Ero alla presentazione di Yosono, marchio di borse al quale sono affezionata e del quale ho parlato più volte, nel 2018 (qui) e poi più recentemente presentando (qui) la speciale iniziativa Fuckovid-19.
Era stato allestito un photocall speciale con dei foulard con i quali io e molti altri (editor, giornalisti, stylist, blogger) eravamo stati invitati a giocare reinterpretandoli, mentre il bravissimo fotografo Federico Patuzzi ci immortalava.

A me venne in mente di usare il mio foulard come una sorta di bavaglio, a mo’ di bandito stile Far West: non so bene perché ebbi questo istinto, credo per nascondere almeno parzialmente la faccia stanca che avevo in quei giorni e per mitigare l’imbarazzo che sempre provo quando mi trovo davanti all’obiettivo e non dietro – come invece preferisco.
E credo di averlo fatto anche perché mi divertiva l’idea di comunicare solo con gli occhi e con lo sguardo

Allora era solo un gioco e non potevo certo immaginare che quel gesto di nascondere bocca e naso sarebbe risultato quasi come una sorta di premonizione: oggi, con il cosiddetto senno di poi, ho deciso di scrivere proprio di mascherine, quelle che temo dovremo abituarci a indossare – ahimè – per molti mesi…
E se lo faccio, se ne parlo, è perché, da più parti, sono stata sollecitata a esprimere il mio parere in merito all’idea di fare diventare le mascherine quasi un trend, un oggetto di e alla moda; insomma, parleremo di mascherine fashion.

Ma per giungere a dirvi cosa penso delle mascherine fashion, permettetemi di fare prima alcune considerazioni perché qui c’è un concetto che diventa centrale, che è il nocciolo della questione: quello di mascherare e celare il nostro volto.

Questo nocciolo può essere affrontato sotto molteplici punti di vista, con considerazioni storiche, psicologiche, culturali, sociali e perfino economiche.

Prima di partire, però, faccio una doverosa precisazione.
È per me fondamentale sgombrare il campo da qualsiasi equivoco poiché fare confusione o cattiva informazione è pericolosissimo e non fa parte del mio modo di agire. Leggi tutto

Bob Krieger, il grande fotografo che io ricorderò anche per la sua simpatia

«Stamattina ho avuto il piacere di conoscere e ascoltare Bob Krieger in occasione dell’anteprima stampa della mostra che Palazzo Morando gli dedica.
Ed è così che ho scoperto qualcosa che non sapevo: oltre a essere un grande fotografo, uno dei fotografi che più hanno influenzato moda e costume a partire dagli Anni Sessanta (e questa parte mi era nota), ho scoperto che Krieger è anche un uomo simpatico, brillante e appassionato, davvero piacevolissimo da ascoltare, generoso quanto ad aneddoti ed esperienze.
Sono felice ogni volta in cui scopro che una persona nota è umile e non arrogante come invece sono molti anche senza essere conosciuti a livello mondiale…
E così, la cartelletta stampa con l’autografo e la dedica di Bob Krieger resterà tra i miei ricordi più cari.»

Sono le parole che ho scritto il 7 marzo 2019 dopo la conferenza stampa grazie alla quale ho avuto l’immenso onore di conoscere Bob Krieger.

Quando giovedì sera ho appreso della sua scomparsa… ero incredula.
L’ennesima scomparsa, l’ennesimo vuoto, l’ennesimo lutto per il mondo e non per quello della cultura, ma per l’intera umanità.

Silenziosa e pensierosa, gli do allora il mio saluto condividendo le foto che avevo realizzato quella mattina in occasione della conferenza stampa e dell’anteprima nonché riportando parte dell’articolo che avevo scritto per ADL Mag per raccontare la bella mostra di Palazzo Morando… Leggi tutto

Stato di salute e futuro della moda in tempi di coronavirus

Da tempo, ormai, si parla di quanto sia necessario rivedere il sistema attraverso il quale la moda viene presentata, prodotta, distribuita.

Per quanto riguarda la presentazione e soprattutto le sfilate, si discute animatamente soprattutto circa tempistiche e modalità.
Continuare a sfilare mesi prima come accade ora oppure adottare la modalità cosiddetta ‘see now, buy now’ con la vendita immediata di ciò che sfila? Far sfilare le collezioni moda e uomo separatamente oppure adottare la modalità co-ed, ovvero congiunta?
E poi… quanto servono le sfilate-spettacolo? Si punta troppo sul clamore a discapito dei capi?
E ancora: chi è seduto in prima fila (e sono sempre più influencer e nuove celebrità) distoglie l’attenzione facendo parlare – anche in questo caso – di chi è ospite più di quanto si parli della collezione?

Per quanto riguarda la produzione, si discute invece di delocalizzazione a discapito di produzioni specializzate, di produzione in Paesi dove non vengono rispettati i diritti umani, di filiere fuori controllo e non più sostenibili per il nostro pianeta.

Per quanto infine riguarda la distribuzione, si discute della crisi profonda dei negozi fisici, della crisi delle grandi catene storiche, dell’esasperazione che vuole che merce nuova sia messa in vendita a ciclo continuo senza durare nemmeno una stagione secondo il modello fast fashion che, ormai, influenza fortemente tutto il sistema e tutte le fasce della moda, indistintamente.
Senza parlare poi del discorso delle rimanenze di stagione, problema oneroso non solo economicamente ma anche dal punto di vista ambientale (leggere stock distrutti o meglio bruciati e anche in questo caso da tutti, brand del lusso inclusi).

Insomma, riassumendo: il sistema moda era in crisi da tempo. Tutto il sistema.
Stilisti costretti a sfornare una nuova collezione dietro l’altra (per soddisfare la smania di soldi delle holding finanziarie dalle quali sempre più spesso vengono inglobati) mentre modelle, giornalisti, compratori, fotografi girano il mondo senza sosta, vanificando gli appelli a una moda ecosostenibile; merce che approda nei negozi a ciclo continuo, tra sovrapproduzione di capi e mancato allineamento tra stagione commerciale e stagione climatica, con il risultato di restare spesso invenduta e generare pericolosi scarti da gestire.

Non è un mistero come molti (Giorgio Armani in testa) condannino da tempo tutto ciò, un sistema che fagocita ogni cosa, con ritmi sempre più serrati e insostenibili e nuova merce da dare in pasto a un mercato sempre più saturo.
Perfino lusso, alto di gamma e alta moda hanno spesso dimenticato i propri valori (qualità, durabilità, esclusività) per avvicinarsi – come ho detto – a un modello fast fashion nella speranza (o meglio nell’illusione) di vendere di più.

Io stessa, naturalmente nel mio piccolo, ho parlato varie volte di dette questioni, dalla delocalizzazione (qui) alla crisi di catene e negozi storici (qui) passando per l’illusione che alto di gamma sia sempre meglio di fast fashion (qui), dalle condizioni socialmente e ambientalmente insostenibili (qui) al gender gap (qui) passando per le sfilate-clamore che vanno oltre ogni limite di decenza (qui), giusto per citare alcuni argomenti dei quali ho provato a parlare negli anni.

Il problema, dunque, esisteva: il coronavirus ha spinto sull’acceleratore, facendo definitivamente esplodere le varie questioni in tutta la loro evidenza e gravità.

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In tempi di COVID-19, scagli la prima pietra chi è senza peccato

Negli ultimi tempi mi sono sentita… disorientata.
Ho pensato a lungo a quale aggettivo usare per definire il mio stato animo e volete sapere una cosa? In realtà non ne esiste uno che mi soddisfi e che mi rappresenti al 100%.
Ciò che provo è molto complesso e anche un po’ aggrovigliato e credo sia uno stato comune a moltissimi di noi.
A ogni modo, penso che ‘disorientata’ – aggettivo che dipinge chi è smarrito, spaesato, interdetto, spiazzato – sia la definizione più vicina e calzante.

Dunque sì, ecco, mi sento disorientata, su molte cose e da molte cose, e tengo a precisare che il disorientamento non riguarda cosa devo e dobbiamo fare, quali comportamenti tenere.
Su quel fronte è tutto chiaro e il disorientamento è nei sentimenti e nei pensieri.
Il disorientamento è quello di cuore, anima e testa sballottati in una continua alternanza di contrasti, di alti e bassi, come se mi trovassi su una giostra impazzita e fuori controllo…

Quando ci si sente così, è preferibile tacere anche per non coinvolgere gli altri nel proprio stato d’animo, quindi ho scelto volontariamente e consciamente di non pronunciarmi più e in alcun modo riguardo gli sviluppi del COVID-19, privilegiando esclusivamente l’ascolto.

Non mi era mai successo nulla di simile, non mi ero mai sentita così fortemente e completamente spaesata, spiazzata, smarrita nemmeno in altri momenti molto duri, miei personali o comuni a tutta la nostra società e diciamo che ne abbiamo passati diversi.
Io ricordo personalmente (e non per averlo letto nei libri di storia), da piccolissima in poi, il disastro di Chernobyl, la guerra del Golfo, l’11 settembre, gli attentati terroristici in tutta Europa, la guerra in Siria, la SARS, l’encefalopatia spongiforme bovina diventata tristemente nota come morbo della mucca pazza, così, giusto per citarne alcuni.
Forse, però, questo è davvero un momento diverso rispetto a tutto ciò che abbiamo vissuto finora… forse presenta davvero un lato inedito in quanto nessuno di noi (se non i più anziani) aveva mai sperimentato personalmente una pandemia che implica una rigorosa quanto necessaria limitazioni delle nostre libertà individuali e personali.

Tuttavia ora, dopo il lungo silenzio, desidero esprimere alcuni pensieri. Leggi tutto

Pillole di mondo: la borsa vintage e i francobolli Sperry and Hutchinson

Scorcio della mia borsa e dei francobolli Sperry and Hutchinson

Oggi voglio raccontarvi una piccola storia curiosa.

Da tanti anni, ormai, faccio i miei acquisti non solo offline (nei negozi fisici) ma anche online (via web): uno dei primi canali che ho utilizzato è stato per esempio Etsy, marketplace di articoli che spaziano dai prodotti fatti a mano fino ai tesori vintage.
Ho un account da più di 10 anni, i miei primi acquisti risalgono al 2009 e sono grata a Etsy per avermi dato una splendida possibilità, quella di entrare in contatto con creativi di tutto il mondo senza sentirmi limitata da distanze fisiche e geografiche.
Oggi – lo confesso – demando questo compito soprattutto a Instagram che offre un’immediatezza e una facilità di ricerca davvero straordinarie: noto con piacere che molti account rimandano comunque a Etsy e ad altri marketplace similari.

Recentemente, attraverso Instagram, ho trovato una borsa Anni Cinquanta ricamata ad ago con un motivo di frutta e fiori: abitualmente, tali borse hanno dimensioni medio-piccole mentre questa ha colpito la mia attenzione per essere piuttosto grande oltre che per le sue ottime condizioni di conservazione.
Al suo interno, specificava la venditrice, c’è ancora il set originale composto da pettinino, specchio e portamonete.
Insomma, è scattato il colpo di fulmine e, dopo una breve trattativa, ho deciso di adottarla: quando la borsa è arrivata si è confermata un ottimo acquisto in quanto perfettamente rispondente alla descrizione, alle foto pubblicate e alle mie aspettative.
Al suo interno c’era il set specificato nonché un altro minuscolo dettaglio che diventa l’oggetto di questo post: tre piccoli francobolli verdi con la scritta Sperry and Hutchinson e la dicitura ‘discount or cash’.

Lo ammetto, non avevo mai visto simili francobolli ed è scattata la mia curiosità intellettuale: ho digitato il nome Sperry and Hutchinson in Google e mi si è aperto un mondo, quello che desidero condividere con voi, cari amici.

Ho scoperto che la Sperry and Hutchinson (in acronimo S&H) era una società fondata negli Stati Uniti nel 1896 da Thomas Sperry e Shelley Byron Hutchinson: la società era specializzata in francobolli commerciali, ovvero piccoli francobolli di carta dati ai clienti dai commercianti per concretizzare programmi di fidelizzazione che hanno preceduto le moderne carte fedeltà.

Singolarmente, i francobolli avevano un valore minimo equivalente a pochi millesimi di dollaro ma, quando un cliente ne accumulava un certo numero, essi potevano essere scambiati con premi quali giocattoli, oggetti personali, articoli per la casa, mobili ed elettrodomestici.
La Sperry and Hutchinson iniziò a offrire francobolli ai rivenditori statunitensi già dall’anno della propria fondazione: le organizzazioni di vendita al dettaglio che distribuivano i francobolli erano principalmente supermercati, stazioni di rifornimento di benzina e negozi che compravano i francobolli dalla S&H e li davano come bonus agli acquirenti in base all’importo dei loro acquisti. Leggi tutto

La moda che NON mi piace: a proposito di Philipp Plein e di limiti (valicati)

La sera di giovedì 20 febbraio, nel pieno della Milano Fashion Week, terminate le lezioni con i miei studenti, mi trovavo a camminare lungo via Palestro per raggiungere la location di una presentazione.
All’altezza della Galleria d’Arte Moderna, ho notato un gruppetto di fuoristrada estremamente vistosi: li ho notati perché il contrasto tra le vetture chiassosamente dorate e la bellissima Villa Reale, capolavoro del Neoclassicismo milanese che ospita la GAM, risultava particolarmente… stridente, diciamo così.
Nella mia testa si è fatto immediatamente strada un nome: «è lo stile Philipp Plein», ho pensato.
Non mi sbagliavo: quando ho superato i fuoristrada, ho visto proprio il nome dello stilista tedesco tratteggiato a lettere cubitali sugli sportelli. Ho scosso la testa, ho sorriso e sono passata oltre, dimenticando ben presto l’episodio.

Mi è tornato in mente solo alla fine di Milano Moda Donna, quando ho letto un articolo di Fashion Network: ‘Philipp Plein suscita indignazione per il raffazzonato omaggio a Kobe Bryant’, titolava la testata online, l’unica (che a me risulti) in ambito moda ad aver fatto un dettagliato reportage critiche incluse dello show svoltosi a Milano il 22 febbraio.
Perché quel titolo?
Perché, per presentare la sua collezione autunno-inverno 2020/21, lo stilista ha organizzato uno show fastosissimo e dorato (ecco spiegati i fuoristrada visti quel giorno), rendendo omaggio (almeno nel suo intento) alla leggenda del basket Kobe Bryant, recentemente scomparso insieme alla figlia primogenita Gianna e ad altre sette persone a causa di un tragico incidente d’elicottero: è stato invece ampiamente criticato attraverso i social media per almeno due motivi.
Il primo: l’accusa di voler sfruttare l’immagine di Bryant a nemmeno un mese dalla scomparsa avvenuta il 26 gennaio.
Il secondo: l’inclusione nel set dello show (nel suo caso il termine è molto più adatto rispetto a sfilata) di elicotteri dorati oltre a varie supercar, motoscafi e aerei altrettanto lucenti.
Elicotteri, sì, avete letto bene, come quelli del mortale incidente.

Classe 1978, re dello stile opulento e volutamente eccessivo, il designer ha spiegato che tale ‘arredo’ era stato ideato e progettato a novembre 2019 (prima, dunque, della tragica morte di Bryant) e che era troppo tardi per sostituire gli elicotteri.
Davvero, Mr. Plein? Leggi tutto

STILE MILANO Storie di eleganza, la mostra che narra Milano e il suo stile

Ero ancora una ragazzina (ma già incuriosita dalla moda, dai suoi significati e dai suoi percorsi) quando sentii usare per la prima volta l’espressione Stile Milano rimanendone sorpresa e colpita.

La mia Milano, la città che tanto amavo (e che tanto amo), aveva addirittura uno stile tutto suo? Che orgoglio!

La risposta a quel mio quesito era ed è sì: in realtà, si può affermare che ogni città sia caratterizzata da uno stile preciso che, a sua volta, è influenzato dalle caratteristiche e dall’impronta sociale, culturale ed economica della città stessa; quando si parla di quella che è diventata una delle cosiddette capitali della moda, ecco che nasce una definizione come Stile Milano.

Lunedì 20 gennaio, a Palazzo Morando in via Sant’Andrea 6 a Milano, è stata inaugurata la mostra STILE MILANO – Storie di eleganza, promossa dal Comune di Milano | Cultura e dall’Associazione Stile e storia.

Aperta al pubblico fino al 29 marzo 2020, la mostra (allestita nell’ala nuova al primo piano dello storico palazzo) illustra il rapporto tra abito e gioiello dagli Anni Cinquanta ai giorni nostri, sottolineando lo stretto legame che unisce vestito e ornamento e narrando l’evoluzione di stile e costume.

Ogni città ha il suo stile – come dicevo – e Milano, con la sua sobrietà, ha definito un’eleganza curata, fatta di capi impeccabili e dettagli preziosi, frutto di alta artigianalità, fino a diventare un’indiscussa capitale della moda: STILE MILANO racconta come lo è diventata.

È la presenza sul territorio di capaci artigiani, spesso donne, che ha permesso la nascita dei grandi brand: dal dopoguerra in poi, le sartorie (da Biki a Jole Veneziani) e i gioiellieri milanesi (da Buccellati a Cusi, da Faraone a Calderoni) hanno creato per le loro clienti abiti e gioielli personalizzati, utilizzando con sapienza tecniche e lavorazioni particolari.

Una creatività delle donne, quella delle abili mani delle sarte, e una creatività per le donne, quella dei gioiellieri: da entrambe sono nati oggetti esclusivi che esprimono un lusso non gridato ma ricercato e ‘su misura’.

I gioiellieri, infatti, hanno avuto un ruolo importante quanto gli stilisti e ancora oggi rappresentano punti di riferimento dello stile milanese: STILE MILANO racconta, anche attraverso una selezione di gioielli, come le maison milanesi abbiano saputo interpretare lo stile di un’epoca delineando la propria proposta personale. Leggi tutto

2020 Anno del Topo: tre mostre a Milano, Roma, Torino omaggiano la Cina

Festeggiando l’Anno del Topo al Torino Outlet Village con una delle bellissime ‘China Girl’ di Xu De Qi,

maestro dell’arte pop cinese.

Non apprezzo i luoghi comuni e i pregiudizi; non mi piace il pensiero omologato né mi piacciono i giudizi generalizzati.

Volete un esempio pratico?

Nutro scarsissima simpatia verso i luoghi comuni che spesso affiorano quando si parla di Cina; sono addolorata dal fatto che, negli ultimi anni, associamo spesso questo immenso e sfaccettato Paese a pensieri negativi che credo sia inutile elencare (tanto li conosciamo tutti…), dimenticando che la Cina ha in realtà molto più da offrire che un pugno di cliché e di stereotipi.

Ho avuto la fortuna di visitare l’immensa Shanghai nel lontano 2004, sedici anni fa: come raccontai in un’altra occasione qui nel blog, così come per ogni viaggio che ho fatto, potrei raccontare tante cose, belle e meno belle, e devo ammettere che in occasione di quel viaggio rimasi colpita (anche) dalle profonde contraddizioni che già allora iniziavano a farsi sentire in maniera abbastanza significativa.

Potrei raccontarvi delle enormi difficoltà nel comprendere e nel farmi comprendere (l’inglese era parlato da pochissimi), eppure potrei anche raccontarvi come molte persone, spinte dalla curiosità, cercavano di dialogare con me, arrivando a mimare parole e concetti pur di poterci parlare.

Potrei raccontarvi di quando un taxi mi scaricò (letteralmente!) perché non ci capivamo, scatenando il mio panico, ma potrei anche raccontarvi di quella volta in cui mangiavo dei ravioli per strada (avevo seguito la coda di gente del posto in fila davanti a un chioschetto e avevo fatto benissimo…) e un ragazzo seduto per terra vicino a me interruppe il suo pasto per andare a procurarsi un cucchiaio di ceramica che mi porse con estrema gentilezza e rispetto, vedendomi in evidente difficoltà con le bacchette.

Ecco, forse della Cina si può in parte pensare questo, che sia un Paese dalle mille contraddizioni, ed è vero, a mio umilissimo parere; sarebbe però un peccato fermarsi a un giudizio superficiale, poiché equivarrebbe a fare la stessa operazione che molti fanno con l’Italia e che a noi dà (giustamente!) tanto fastidio. Leggi tutto

Se Instagram nasconde i like… è un’opportunità o una penalizzazione?

È stato un argomento che ha creato non poco scompiglio quest’anno nel web: dopo una fase sperimentale, Instagram ha deciso di nascondere definitivamente (?) il numero dei like.

Se metto il punto interrogativo è perché con Mark Zuckerberg, fondatore e proprietario di Facebook nonché proprietario di Instagram dal 2012, non si può mai sapere se e quanto una decisione sia definitiva.
A ogni modo: il test, iniziato il 17 luglio, aveva inaugurato una fase di prova allo scopo di sondare il parere degli utenti.
«Vogliamo aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono. Stiamo avviando diversi test in più Paesi per apprendere dalla nostra comunità globale come questa iniziativa possa migliorare l’esperienza su Instagram.»
Così aveva dichiarato Tara Hopkins, Head of Public Policy EMEA di Instagram.

Attorno a fine settembre, la prova è diventata appunto ‘definitiva’ ed estesa a tutti gli utenti.
Il tasto like non è stato rimosso, tuttavia non è più visibile il numero dei ‘mi piace’; solo l’utente che ha condiviso il post su Instagram può avere accesso a tale informazione.
L’informazione è in realtà ancora visibile se, al posto di usare la app via smartphone, apriamo Instagram via pc – stranezze non facilmente comprensibili…

A ogni modo: prima in luglio e poi in settembre, ho letto molti post preoccupati e ho notato parecchia agitazione circa questa faccenda dei like.
Io, invece, non sono stata mai minimamente preoccupata, sebbene con i social ci lavori (anche).
Non ho finora scritto nulla riguardo questo cambiamento, credo forse di aver twittato condividendo il link di qualche articolo da una delle tante riviste che leggo: ho preferito aspettare e pormi in ascolto con tutti i sensi allertati, lasciando passare qualche mese allo scopo di poter osservare sviluppi e risultati e potermi fare un’opinione più chiara e, spero, fondata su basi più solide.
Adesso l’anno sta per chiudersi e, come sempre avviene in simili frangenti, è giunto il momento di un piccolo e personale bilancio: inizio allora dicendo perché non mi sono mai agitata.

Il primo motivo per il quale non mi agito è perché sono fermamente convinta del fatto che le evoluzioni siano del tutto naturali, in ogni ambito. E quindi è naturale che anche i social si evolvano.
Il secondo motivo è perché so bene che i social – quelli attuali – esistono da nemmeno 20 anni: parlando di alcuni tra i più celebri e diffusi, Facebook è nato nel 2004, Twitter nel 2006, Instagram nel 2010, Snapchat nel 2011, TikTok nel 2016.
Vivevamo (bene) prima di loro, continueremo a vivere (bene) anche se cambiano e si evolvono, detto da una che – ripeto – con i social ci lavora.
Il terzo motivo per cui non mi sono preoccupata (e non mi preoccupo) è che non ho mai puntato alla quantità anche perché, causa algoritmi (in parole molto spicce, le formule con le quali vengono determinati i criteri con i quali viene deciso quali contenuti mostrarci), è ormai quasi impossibile (ho scritto quasi) crescere organicamente e naturalmente e la quantità sui social si ottiene quasi esclusivamente in tre modi: se si è una vera celebrità, nel bene o nel male; se si investe in pubblicità; se si è disposti a usare sistemi che non sempre sono ‘naturali’ (diciamo così per restare soft).
Non rientro in nessuno dei tre casi e dunque ho semplicemente puntato a qualità e autenticità dei contenuti che produco.

E, per inciso, a me sembra (uno) che parlare a diverse migliaia di persone (numero che cresce se metto insieme tutti i miei canali social) sia cosa tutt’altro che trascurabile e (due) che sia importante, sempre nell’ottica della qualità, ciò che comunichiamo e condividiamo, sia che si parli a dieci persone sia che si parli a circa 5000.
Così, almeno, suggeriva il buonsenso prima che tante persone perdessero il senso della misura… Leggi tutto

Io penso positivo: da Peter Lindbergh a Meghan Markle passando per Vogue

Il lancio della cover e del numero di settembre di British Vogue con gli scatti di Peter Lindbergh attraverso l’account Instagram del magazine

Il primo pensiero che ha attraversato la mia testa quando ho appreso della scomparsa di Peter Lindbergh è stato «non posso crederci».

Non me l’aspettavo (non vi era alcuna voce che potesse far temere per la sua vita) e non posso credere che lui non ci sia più perché, come ha ben scritto il mio amatissimo amico e maestro Stefano Guerrini in un suo post, «Mr. Lindbergh ci ha lasciato e di nuovo, dopo Franca, Anna, Isabella, Karl, sento che il mondo dal quale sono stato attratto e che mi ha fatto sognare è finito».

Franca, Anna, Isabella, Karl sono Franca Sozzani, Anna Piaggi, Isabella Blow, Karl Lagerfeld, ovvero alcune delle sue (e delle mie) icone in un mondo – quello della moda – sempre più orfano di personalità magari un po’ ingombranti ma indubbiamente straordinarie e sempre più pieno, invece, di personaggi vacui che fondano la loro celebrità su un’apparenza priva di qualsiasi spessore.

Alla luce di tutto ciò, capisco che una domanda potrebbe attraversare i pensieri di chi sta leggendo queste parole: «perché stai allora intitolando questo post ‘Io penso positivo’? Come si sposano la positività e la scomparsa di un grande fotografo?».

Avete tutte le ragioni per farvi (e farmi) questa domanda e io desidero rispondervi: non voglio che la tristezza vinca, non voglio salutare Peter Lindbergh tra le lacrime, non voglio che il legittimo cordoglio prevalga sullo straordinario lascito e sulla preziosa lezione che ci ha regalato attraverso il lavoro e il pensiero di tutta una vita.

E non voglio in fondo pensare che quel certo mondo tanto amato da Stefano e da me sia davvero finito.

Desidero invece rendergli omaggio con un post che, in realtà, era in programma già prima delle vacanze estive per raccontare quello che ora è diventato uno degli ultimi lavori di Peter Lindbergh, ovvero la copertina del numero di settembre di British Vogue intitolato ‘Forces for Changes’ e che vede come guest editor Meghan Markle, Sua Altezza Reale la Duchessa di Sussex.

Il post era già in programma, ebbene sì, e infatti, dopo l’incredulità, il secondo pensiero che mi ha attraversato la testa è stato «la vita sa essere davvero beffarda, strana, ironica». Leggi tutto

Belle scoperte che amo condividere: Le Petit Écho de la Mode

Come a tutti (credo), capita anche a me di vedermi affibbiare nomignoli e soprannomi vari.
Tempo fa, qualcuno ha fatto un paragone tra me e un “cane da tartufo” e devo dire che l’ho trovato particolarmente simpatico, divertente e calzante.
In effetti, con un cane da tartufo ho in comune pazienza, scrupolosità e perseveranza; la differenza pratica è che, al posto di preziosi, profumati e succulenti tuberi bianchi e neri, io cerco cose belle e buone tra vari ambiti che comprendono moda e arte, senza confini né paletti né pregiudizi. E spero quindi di avere anche lo stesso fiuto di un cane da tartufo.
Questo paragone mi piace, insomma, perché racconta la caratteristica che di me preferisco, quella di piccola ricercatrice del bello, di ostinata cultrice di tutto ciò che profuma di crescita, miglioramento e positività.

Credo pertanto che per far ripartire il blog dopo le vacanze non esista miglior modo del condividere una scoperta fatta durante le mie rigeneranti vacanze e di condividerla con tutti voi, miei carissimi amici che mi fate il dono e l’onore di leggere queste pagine virtuali.

Durante il mese di agosto, sono tornata in Bretagna e Normandia, due regioni francesi che amo immensamente e che, anche stavolta, sono state molto generose nei miei confronti regalandomi moltissimi spunti quanto a bellezza, conoscenza e cultura: in particolare, desidero condividere con voi la scoperta di un posto splendido che si chiama Petit Écho de la Mode.

Si trova a Châtelaudren, cittadina situata nel dipartimento della Côtes-d’Armor in Bretagna, e un tempo era la sede di un giornale dal titolo omonimo: oggi, grazie a un’opera di ristrutturazione molto intelligente e molto ben condotta, è un centro culturale polivalente che ruota attorno alla storia e alla tradizione di quella rivista. Leggi tutto

Chiuso per ferie 2019, AGW ospita Gloria Vian e il suo «Esserci o esistere»

Tra le diverse attività che compongono il mio panorama professionale figura l’insegnamento.
È l’attività che richiede maggior impegno, energia e passione, perché insegnare è una gioia nonché una grande responsabilità.
Mi regala molte soddisfazioni ma anche qualche sconfitta: è una sfida continua ed è una sfida che non intendo abbandonare in quanto ci tengo (e ci credo) moltissimo.
E così, attraverso Accademia del Lusso che continua a credere in me (grazie ), tengo dei corsi di editoria e comunicazione della moda con focus specifico sulla loro evoluzione via web: si è da poco concluso l’anno accademico 2018-19 e io sto già pensando ad aggiornare i materiali per il nuovo anno che inizierà tra settembre e ottobre.

Tra le regole imprescindibili che mi do in qualità di docente, includo la necessità di essere imparziale, dando le stesse possibilità a tutti gli studenti e non assecondando in alcun modo simpatie (o antipatie) personali.
Ma ora che l’anno accademico è finito, ho deciso che, per una volta, posso concedermi uno strappo alla regola, anche perché la studentessa alla quale darò voce oggi, Gloria Vian, si è laureata lo scorso 1° luglio, concludendo tra l’altro il suo percorso con il massimo dei voti.

La tesi di laurea di Gloria ruota attorno a un argomento attuale e interessante: si intitola «Esserci o esistere» e si pone l’obiettivo di analizzare il rapporto tra mondo reale e mondo virtuale.
L’argomento è decisamente complesso e sfaccettato: ho molto apprezzato la serietà, l’impegno e la profondità con cui Gloria ha affrontato il tutto, ho molto apprezzato le ricerche che ha condotto anche attraverso interviste a vari professionisti ed esperti e, infine, ho molto apprezzato l’installazione che ha dato corpo alla sua tesi.

Alla luce di tutto ciò, quest’anno ho deciso di lasciare a Gloria Vian una responsabilità, ovvero quella di essere il post che ogni estate ‘chiude per ferie’ il blog: lo faccio per due motivi.

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Gli ‘Abiti da star’ di Rosanna Schiaffino sono in mostra a Milano

Nel post precedente, miei cari amici e lettori, ho fatto una confessione, ovvero quanto dispiacere io provi (anche in veste di docente) quando riscontro poco interesse verso la storia del costume da parte di tanti giovanissimi che frequentano le accademie di moda.

Capita, ebbene sì, che vi sia tale disinteresse e ho aggiunto che se mi dispiace è perché credo che sia per loro un’occasione persa: chi studia la moda e ambisce a diventare un professionista in tale settore deve invece essere molto interessato ad acquisire quegli strumenti preziosi che permettono di leggere il passato per interpretare il presente e immaginare o progettare il futuro.

Se riprendo questo incipit è perché, lo scorso 20 giugno, insieme a un piccolo gruppo di miei studenti di Accademia del Lusso, sono stata a Palazzo Morando, il museo meneghino che ospita il racconto di tutto ciò che è Costume, Moda, Immagine: scopo della nostra presenza era visitare una mostra della quale avevo già accennato in un precedente post parlando di archivi-guardaroba celebri, qui, ovvero la mostra ‘Rosanna Schiaffino e la moda – Abiti da star’ che resterà aperta fino al 29 settembre.

Nonostante la giornata fosse davvero torrida e non favorisse la concentrazione, i miei ragazzi mi hanno dato grande soddisfazione cogliendo appieno l’importanza della mostra e soffermandosi con attenzione, entusiasmo e ammirazione a osservare ricami, leggere didascalie, guardare filmati d’epoca: la mostra racconta – come dice il titolo stesso – il rapporto con la moda di Rosanna Schiaffino (1939 – 2009), splendida e celeberrima attrice italiana, è vero, ma certamente lontana dai tempi, dalla realtà e dal vissuto di giovanissimi appartenenti alla Generazione Z. Leggi tutto

La tuta da Thayaht ai giorni nostri, un capo che non invecchia mai

Vi faccio una confessione, miei cari amici.
Anche in veste di docente, provo grande dispiacere quando riscontro poco interesse verso la storia del costume da parte di quei giovanissimi che frequentano le accademie di moda.
Ebbene sì, capita, e se mi dispiace è perché credo che sia per loro un’occasione persa: chi studia la moda e ambisce a diventare un professionista in tale settore deve invece essere molto interessato ad acquisire quegli strumenti preziosi che permettono di leggere il passato per interpretare il presente e immaginare o progettare il futuro.
Credo che l’equivoco di base sia considerare la storia come qualcosa di polveroso se non morto, mentre al contrario la storia vive ed è una grande maestra proprio perché, se letta e padroneggiata con attenzione e passione, ci offre grandi possibilità.
Anche perché la storia della moda ha una caratteristica significativa: è ciclica ed è molto spesso fatta di ritorni e reinterpretazioni, dunque sorrido quando magari si considera rivoluzionario e moderno qualcosa che in realtà esisteva già secoli scorsi (o anche più, come nel caso di capi che risalgono a Greci, Romani, Egizi) e che qualche stilista contemporaneo ha più o meno semplicemente rielaborato e riproposto.
C’è perfino qualcuno che ha considerato ‘diavolerie moderne’ cose che esistevano già mille e più anni fa, come per esempio il costume a due pezzi (certo esisteva in una forma diversa, come ho raccontato e mostrato qui).
Ebbene sì: dobbiamo molti dei capi che indossiamo ancora oggi a geniali creatori che li hanno pensati tanti anni fa, magari… cento anni fa.

Non scrivo il numero a caso ma prendendo come esempio la tuta: avevo promesso in un post recente di tornare a parlarne ed eccomi qui a mantenere la promessa.

Tornare a parlarne, sì, perché avevo già accennato alla storia della tuta in un post del 2016 dedicato al lavoro di Francesca Fossati.
Ora, però, ho voglia di raccontarvela proprio bene, perché la tuta (overalls / dungaree / jumpsuit per chi preferisce l’inglese o ancora salopette per chi ama il francese) ha una genesi davvero interessante e che riesce a fondere tanti diversi elementi.

Vi dico subito il nome di colui al quale si può attribuire la paternità della tuta: si tratta dell’artista italiano Ernesto Michahelles (1893 – 1959). Leggi tutto

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